C’è un nuovo farmaco: la marijuana

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L’Espresso
Ignazio Marino

A Rovigo si coltiva la marijuana, legalmente. Centocinquanta piante ogni tre mesi, circa quattro chili di foglie, secondo quanto stabilito dal ministero della Salute che ha autorizzato il Centro di ricerca per le colture industriali (Cra) a crescere la cannabis a scopo di ricerca.

Dopo l’utilizzo per studi sperimentali in laboratorio che accade? La cosa più logica, e utile, sarebbe utilizzarla per produrre farmaci contro il dolore, ma per questo servono autorizzazioni specifiche che in Italia nessuno possiede, nemmeno l’Istituto farmaceutico militare di Firenze. E allora? Le piante vengono consegnate alla Guardia di finanza che procede alla termo-distruzione, ovvero le brucia. Ma non finisce qui perché se da una parte la cannabis viene incenerita, dall’altra viene importata, dalla Spagna o dall’Olanda, sotto forma di medicine per pazienti affetti da patologie dolorose, come quelle neurodegenerative, per esempio la sclerosi multipla, quelle reumatiche, l’Aids o ancora per pazienti oncologici sottoposti a chemioterapia, o trapiantati che hanno perso Io stimolo dell’appetito.

IN ITALIA QUESTI FARMACI, benché la loro efficacia terapeutica sia scientificamente riconosciuta, non solo non si producono ma al momento non c’è neanche la possibilità di metterli in commercio. Per ottenerli è necessario che un medico ne faccia richiesta per ogni singolo paziente alla Asl che, a sua volta, chiede l’autorizzazione all’ufficio centrale stupefacenti del ministero. Se tutto va bene, il farmaco arriva dall’estero nel giro di un mese, ma la procedura, figlia di una burocrazia macchinosa, va ripetuta ogni volta per richiedere nuovi farmaci, quindi ogni sessanta o novanta giorni. Per di più il costo è a carico dei pazienti che arrivano a pagare anche 600 curo al mese.

Solo pochissime Asl, che si contano sulle dita di una mano, rimborsano le spese e recentemente Liguria, Venero e Toscana hanno approvato delle norme per tentare di rendere più snelle le procedure. Ma c’è il rischio che la Consulta, su azione del governo, le dichiari incostituzionali.

Non è un caso, dunque, che in Italia l’uso di farmaci per il dolore sia ancora molto limitato rispetto agli altri paesi europei. Certo, non è solo una questione di procedure. Persiste infatti nel nostro Paese una cultura medica diffusa che considera il dolore importante, un sintomo che permette di elaborare diagnosi più accurate. Mentre il dolore è una vera e propria malattia, e come tale va considerata e trattata. In Italia 13 milioni di persone soffrono di dolore cronico (il 21,7 per cento della popolazione) e quasi la metà dichiara di non ricevere cure adeguate. Il disinteresse da parte delle istituzioni è evidente e nel caso della can-nabis il percorso è addirittura paradossale: o si opta per la burocrazia, quando si hanno le risorse per pagare i farmaci, o vi si rinuncia, oppure si commette un reato procurandosi la marijuana tramite il mercato illegale o coltivandola in casa.

ALLORA PERCHÉ NON INTERVENIRE con un po’ di razionalità? Innanzitutto permettendo al Cra di Rovigo, che è un centro pubblico e quindi sottoposto ai controlli più rigorosi, di ampliare la coltivazione per produrre la quantità di cannabis sufficiente a rispondere alle richieste dei malati. Secondo, avviando una produzione italiana dei farmaci per il dolore, affidandola ad aziende private pronte a investire nel settore, per raggiungere così l’autosufficienza e abbattere i costi di importazione dei prodotti della cannabis. Infine, vendendo i medicinali nelle nostre farmacie, con l’autorizzazione dell’Aifa e la ricetta del medico. Se tutto questo non si fa, probabilmente è perché persiste una resistenza culturale che demonizza l’utilizzo della cannabis anche quando è finalizzato a curare il dolore. Un giudizio morale senza senso, anacronistico e sbagliato, cha va modificato perché danneggia la qualità della vita di tante persone.