«Basta cure. Questa non è vita.»

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Panorama
Anna Germoni

Tempo di lettura: tutto quello che serve.

Massimo Fanellì, detto «Max», ha 54 anni e sulla testa tiene sempre un berretto fatto all`uncinetto, con i colori della bandiera della pace. Lo ha portato sempre, fin da quando era ragazzo, nella sua Rimini. Per lui quel cappello è come una bandiera, quasi un «tatuaggio» ideale: significa libertà, dignità, giustizia sociale per tutti. In testa, del resto, Max ha anche idee molto particolari: di professione è stato dirigente d`azienda, ma ha dedicato l`esistenza al prossimo e per gran parte della sua vita ha fatto il volontario tra Africa e Medìo Oriente.

Dal 26 settembre 2013, Max Fanelli sa di avere una malattia inguaribile: si chiama SLA, Sclerosi laterale amiotrofica. Nel corso di questi ultimi due anni, purtroppo, il morbo sí è progressivamente impadronito dei suoi muscoli, e da qualche mese lo ha imprigionato in un letto. La situazione sta velocemente peggiorando. Per questo, dall`11 ottobre di quest`anno, l`uomo ha deciso di sospendere i farmaci: con questo gesto estremo vuole attirare l`attenzione sulla Sla e chiede una legge sull`eutanasia. Max, che sui social network ha appena lanciato una campagna intitolata #iostoconmax, ha deciso di raccontare a Panorama la sua scelta estrema, che ricorda quella adottata nove anni fa da Piergiorgio Welby, il malato di distrofia che impegnò i suoi ultimi giorni per il riconoscimento del diritto al rifiuto dell`accanimento terapeutico in Italia.

La Sla è una malattia insidiosa e crudele: per Max è iniziata con una crescente fatica nel camminare e nell`alzarsi, che poi lo ha inchiodato alla sedia a rotelle e infine al letto. Ora ha perso tutte le funzionalità motorie: sono immobili e insensibili piedi, gambe, mani. Fanelli riesce a nutrirsi e a respirare soltanto grazie a macchinari. E ormai non parla più. Comunica, con immensa fatica, attraverso un «puntatore ottico», un lettore a controllo oculare che lo spossa e lo fa lacrimare (ogni movimento, una lettera). Ormai gli resta soltanto un occhio, quello destro, per guardare il mondo, per cambiarlo. E per combattere la sua battaglia contro quella che definisce «la frustrazione di vedere negata la libertà di decidere se e come accettare questa situazione».

Quando inesorabilmente perderà anche l`uso dell`occhio destro, Max sarà condannato al silenzio. Imprigionato nel suo corpo, senza poter comunicare sentimenti, volontà, desideri, paure. Max nella sua battaglia non è solo: molti parlamentari stanno presentando interrogazioni sul suo caso. E lui si è anche appellato al capo dello Stato, Sergio Mattarella. C`è anche chi, come la presidente della Camera Laura Boldrini, lo ha incontrato e gli ha chiesto di riprendere le cure. Fanelli le ha risposto: «No, grazie». Preferisce lasciarsi andare, pur di ottenere una legge che stabilisca la libertà di decidere il fine vita. Oggi, attraverso Panorama, ammonisce Boldrini e l`intera classe politica italiana: «Il Parlamento» dice Max «deve occuparsi dei tanti malati terminali e della loro dignità».

La storia di Fanelli parla per lui. È una storia che fin da ragazzo lo porta a fare il volontario nelle zone colpite da inondazioni e terremoti. Anche quando inizia a lavorare a Verona, come dirigente in una multinazionale tedesca, il suo cuore è sempre oltre l`ostacolo. Max, per
esempio, riesce a convincere i vertici dell`azienda a versare 150 mila euro per riaprire un ospedale di Emergency in Afghanistan, dov`è stato accanto al chirurgo Gino Strada, che ha seguito anche in Iraq. Ma Fanelli a quel punto ha un sogno: andare in Sierra Leone e lanciare un`associazione che tuteli í bambini abbandonati. Nel 2011 lascia Verona e l`azienda, e parte per l`Africa con Monica Olioso, la compagna che è divenuta sua moglie nel 2012.

L`incontro con quella terra distrutta da fame, povertà e guerre gli strazia il cuore: là sono a rischio soprattutto i bimbi, racconta Fanelli sempre parlando attraverso il puntatore ottico, «che giocano tra escrementi e mine giocattolo».
Max reagisce: vuole creare un`organizzazione che possa salvare i bambini, aiutarli a crescere. «Da quel momento» dice Fanelli «inizio a vivere nella fantasia il mio sogno, come se fosse realizzato. Parlo con le persone che ne faranno parte, supero ogni ostacolo». Il 26 settembre 2012 nasce così l`associazione I compagni di Jeneba, una onlus che fa educazione e formazione, un ponte tra l`Italia e l`Africa. Il dramma di Max esplode nell`autunno 2013, vent`anni esatti dopo la diagnosi di sclerosi laterale amiotrofica che già aveva colpito sua madre: su Fanelli si abbatte lo stesso verdetto senza appello.

L`uomo ha annotato su un taccuino i pensieri che ín quel momento gli attraversavano la mente: «Ti trasformi in una candela accesa che lentamente scioglierà il tuo corpo fino a renderlo un mozzicone inutile, mentre la fiamma illuminerà la scena per fartela vivere interamente». Come ha sempre fatto nella vita, Max non si arrende e lotta. Scrive un libro autobiografico, Via crucis fuori stagione, i cui proventi andranno interamente ai suoi amici africani. E alla malattia si ribella. Vuole vivere, e combatte con coraggio. È capace perfino di farci ironia: «Avevo chiesto di realizzare un sogno in Sierra Leone-Africa, ma un dio distratto ha capito Sla». Aggiunge: «L`amore è solo narcisismo se non è rivolto agli altri». Con grande coraggio, e sopportando una fatica sovraumana (ci sono volute ore e ore per mettere insieme le sue frasi), Fanelli ha accettato di rispondere ad alcune domande per raccontarsi, per mettersi a nudo, «per condividere la mia vita con voi». Perché, spiega, «la mia vita è stata bellissima, e spero che qualcuno possa trarne qualche spunto per realizzare i suoi sogni, come è successo a me».

Germoni: Partiamo dai suoi sogni realizzati. Con la sua fondazione lei è riuscito a strappare alla fame 110 bambini in Sierra Leone. Com`è iniziato tutto?

Max: Emergency mi offrì di andare a vedere l`ospedale di Goderich in Sierra Leone. Lì conobbi la vera miseria umana, le colpe dell`Occidente, i meravigliosi bambini africani. Avevo trovato il luogo dove la mia anima era felice e dove potevo essere di vero aiuto.

G: Com`è nata la sua vocazione ad aiutare gli ultimi del mondo?

M: In quarta elementare ricevetti un attestato di merito a un concorso sul servizio pubblico. Questo credo abbia forgiato un po` la mia identità, al punto che a 21 anni ricevetti la medaglia d`oro per i servizi svolti nella pubblica assistenza. Qui nelle Marche per anni ho svolto attività di volontariato e 15 anni fa sentii l`esigenza di dedicarmi alle classi più disagiate. Per motivi professionali incontrai Emergency e collaborai alla manutenzione e alla costruzione dei loro ospedali in Iraq e a Laskargah, in Afghanistan.

G: Come si è manifestata la malattia?

M: Nei primi mesi del 2013 il mio corpo mandò strani segnali: mi sfuggivano le cose dalle mani, inciampavo senza motivo. L`estate trascorse nella preparazione di quella che doveva essere la mia nuova attività di consulenza e formazione. In agosto, una breve vacanza sulle Dolomiti con Monica e poi, il 26 settembre 2013, durante una visita neurologica, arrivò il verdetto: «Lei ha la Sla». Quel giorno era l`anniversario della fondazione di I compagni di Jeneba. E iniziò il calvario.

G: Quali cure ha fatto?

M: Prima c`è stata la ricerca di terapie sperimentali, cui ho avuto accesso tramite il centro Dino Ferrari di Milano, però senza esito. Poi è venuta la tracheostomizzazione. Quindi il posizionamento della Peg, cioè l`alimentazione diretta nello stomaco attraverso un sondino. Fino ad arrivare alla situazione in cui mi trovo oggi.

G:Lei dice di voler continuare a lottare fino «all`ultimo movimento» del suo occhio. Perché allora ha deciso di sospendere i farmaci?

M: Lottare per me significa puntare all`obiettivo. Sospendere le cure vuol dire aumentare il tono della battaglia, non rinunciare a essa.

G: Ma lei conduce una battaglia per la vita o per la morte?

M: La mia è una battaglia per una vita libera e dignitosa fino alla fine: per dare un «fine vita» ai malati terminali, oggi sottoposti a leggi obsolete e a reticenze culturali e sadiche.

G: Lei ha conosciuto lo strazio di madri che perdono i figli, uccisi da una mina-giocattolo. Ha visto la sofferenza causata dalla morte. Ora vuole morire. Non è paradossale, anche se in nome di una battaglia per gli altri?

M: Io sono convinto che ognuno, soprattutto noi occidentali, abbia il dovere di contribuire al miglioramento della società. Io cerco di farlo per quella che sembra essere una vocazione individuale, studiando e preparandomi al meglio. Sempre sostenuto da valori non negoziabili: dignità, solidarietà e libertà.