Aprire la terapia intensiva ai parenti? Fa bene ai malati

Corriere della sera
Margherita De Bac

ROMA — L’esclusione e l’isolamento dal mondo esterno aggiungono malattia alla malattia. Il paziente vede i visi dei propri cari stilare oltre il vetro divisorio. Non può ascoltare voci, stringere mani, trarre conforto da sguardi di incoraggiamento. Molto spesso è così, in Italia. Novantotto reparti di terapia intensiva e rianimazione su cento hanno orari rigorosi e restrittivi per quanto riguarda le visite dei familiari. Che in media possono entrare un paio d’ore al giorno e va considerato un traguardo. Al superamento di questo modello punta il documento già esaminato in via preliminare dal Comitato nazionale di bioetica e che verrà approvato nell’ultima seduta plenaria la prossima settimana. Ha coordinato i lavori Andrea Nicolussi, docente di diritto. Sarà l’assemblea conclusiva della compagine di saggi coordinati dal vicepresidente Lorenzo D’Avack, in scadenza ad ottobre.

La fine dei lavori coincide con un parere rilevante sulla promozione delle cosiddette visiting politics, le regole cioè che governano la presenza di familiari e amici nei luoghi dove sono ricoverati pazienti reduci da grosse operazioni e traumi II Cnb riafferma con decisione il principio dell’apertura ed esprime con pienezza «il rispetto della persona nei trattamenti sanitari orientando l’organizzazione versa il primato della dignità e dei diritti dell’individuo in un momento di particolare fragilità e dipendenza rappresentato dalla malattia grave». Una scelta utile, insistono i bioeticisti, per parenti e pazienti. Quindi le terapie intensive devono assicurare la presenza delle figure ritenute significative dal malato che, se cosciente «dovrà essere consultato sulle persone che desidera accanto». In caso contrario si può tenere conto di eventuali indicazioni nell’ambito del «testamento biologico».

L’Italia sta cercando di recuperare un primato negativo, è passata da 0,4% rianimazioni aperte di cinque anni fa al 2% attuale. Meglio nelle pediatrie, con il 12% dei centri organizzato sul modello «open» grazie anche all’opera di sensibilizzazione del dottor Alberto Giannetti. Ma il cammino è ancora lungo. Basta prendere come unità di misura i sistemi sanitari occidentali per rendersi conto di quanto siano più avanti. In Svezia i centri aperti 24 ore al giorno sono 70 su 100, negli Usa il 32%, in Gran Bretagna il 23%, seguono Olanda con il 14%, Francia al 79%, e Belgio con il 3,3%. Il Comitato sottolinea nel documento l’importanza di un parallelo percorso formativo per gli operatori. «Non è facile essere osservati mentre si lavora, dunque anche noi dobbiamo essere preparati alla gestione di un’organizzazione diversa», parte dalla sua esperienza Paolo Fontanari, direttore della terapia intensiva polivalente e dei trapianti al Careggi di Firenze, membro dell’associazione rianimatori e anestesisti ospedalieri dell’emergenza (Aaroi-Emac).

La rivoluzione al Careggi arriverà dopo l’estate. Si passerà dalle attuali due ore di apertura a 12 ore. «Il problema non è tanto l’orario — chiarisce Fontanari —. Abbiamo affrontato la novità in modo progressivo con l’aiuto degli psicologi. Medici, infermieri e familiari devono imparare a comportarsi e lavorare in modo diverso. Sono sicuro che sarà un’esperienza importante, favorirà l’aggregazione con i parenti». Per la Siaarti (Societa italiana anestesia rianimazione), coordinata da Massimo Antonelli, il documento del Comitato di bioetica è un altro passo avanti. «I reparti rimangono chiusi non solo per difficoltà organizzative come la carenza d’organico. Restano pregiudizi errati. Parecchi dei nostri colleghi pensano ancora che i visitatori portino infezioni mentre è assodato che il rischio non viene dall’esterno», dice Antonelli, direttore del centro del Policlinico Gemelli. «Per il malato la presenza dei parenti è fondamentale, riduce lo stato d’ansia, aiuta a superare la fase critica».