Alzheimer: se le vitamine salvano la memoria

La Repubblica
Francesco Bottaccioli

Apparentemente, dal punto di vista patologico sappiamo tutto sull’Alzheimer: nel corso del tempo vengono ad accumularsi, in aree del cervello sempre più estese, placche di beta proteina amiloide e matasse di neurofibrille (proteina tau). Questa alterazione del tessuto nervoso disorganizza le funzioni cerebrali alterando il metabolismo, l’attività di scambio tra neuroni (sinapsi) e i circuiti nervosi. A partire dai primi anni ’90, la ricerca si è concentrata su due aspetti: le dinamiche della formazione delle placche e la genetica della malattia. Oggi sappiamo molto sui meccanismi biochimici che portano al deposito di frammenti insolubili della proteina amiloide e all’aggregazione della tau; sono stati anche identificati alcuni geni che incrementano il rischio della malattia, ma diverse cose non tornano. Per esempio, non c’è una relazione diretta tra dimensioni del carico delle placche e malattia: ci sono cioè cervelli anziani che presentano una distribuzione significativa di placche ma senza deficit cognitivo. Inoltre, il percorso della malattia è pluriennale e in larga misura silente, nel senso che quando compaiono i sintomi si è già realizzato un cambiamento significativo nella struttura di aree fondamentali del cervello. Di qui la necessità, come scrive un gruppo di neuroscienziati dell’università di Ginevra su BMC Medicine, di adottare un modello flessibile che ci porti a identificare precocemente la malattia e a scoprire i “meccanismi fisiologici di compenso” che consentono a persone con un elevato carico di placche a ritardare o a non subire la demenza. Le indagini utilizzano: le immagini cerebrali (una PET particolare chiamata Pittsburgh B, perché inventata nella omonima università) che fotografano la distribuzione delle placche; il fluido cerebrospinale, dove è ormai assodato che la combinazione di una riduzione di beta amiloide-42 (frammento a 42 aminoacidi) e un aumento della proteina tau dà un forte sospetto di alterazioni cerebrali patologiche. Più recentemente si stanno cercando nel sangue i marker della malattia: secondo una ricerca pubblicata su Archives of Neurology, i più significativi sarebbero i livelli alti di cortisolo, quelli della proteina che lega il fattore di crescita insulino-simile (IGFBP2) e quelli del polipeptide pancreatico (PPY). Questo vuol dire che c’è un legame con lo stress (cortisolo) e con il metabolismo. Il PPY infatti è prodotto dal pancreas assieme ad altri ormoni pancreatici tra cui l’insulina. Ricerche recenti dicono che un eccesso di PPY ma anche delle sostanze IGF peggiorano la sensitività dell’insulina e questo induce iperglicemia, diabete, obesità. Il peggioramento del metabolismo del glucosio è riscontrato nell’Alzheimer. Dal 2009 è stato lanciato sul mercato un prodotto che si chiama Axona composto da acidi grassi a catena media e acido caprifico che poi verranno metabolizzati in corpi chetonici, i quali sono i sostituti naturali del carburante glucosio nel cervello. Due studi randomizzati controllati hanno documentato un miglioramento nella performance cognitiva di persone con fasi iniziali della malattia. Un altro prodotto, chiamato Souvenaid, è una miscela di fosfolipidi, omega-3, vitamine e antiossidianti che ha come obiettivo il miglioramento delle membrane sinaptiche. Due studi controllati, realizzati su persone con sospetto Alzheimer in fase iniziale, hanno dato risultati positivi nei test verbali. Infine, un prodotto denominato CerefolinNAC, composto da vitamine del gruppo B e N-acetil cisteina, è stato approvato dalla FDA ma ad oggi non ha studi controllati significativi. Studi che invece non mancano alla dieta mediterranea che dimostrano che ridurre drasticamente la carne rossa, aumentare il consumo di pesce, verdure, frutta, olio di oliva, semi oleosi comporta una riduzione del rischio diAlzheimer fino al 40% se la dieta viene seguita scrupolosamente. Infine l’attività fisica non solo come prevenzione ma anche come parte della cura. Uno studio finlandese, pubblicato online un mese fa su  JamaInternalMedicine, dimostra che inserire un programma di attività fisica nella cura delle persone con Alzheimer rallenta la disabilità e, non ultimo, fa risparmiare dai 9.000 ai 12.000 dollari l’anno a persona!