Alzheimer, il male del secolo

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La cifra dei nuovi possibili pazienti è destinata a crescere drammaticamente, in Abruzzo così come in Italia, in linea con le più fosche previsioni mondiali. Secondo il Rapporto di Alzheimer Disease’s International, pubblicato a settembre 2010, nel mondo le persone affette da demenza sono 35,6 milioni: numero destinato a raddoppiare nel 2030 e triplicare nel 2050. In Europa è previsto un aumento del 34 per cento in questo decennio. In Italia la malattia ha travolto 800mila persone e con loro anche la vita dei familiari, sia dal punto di vista economico, che assistenziale e psicologico. Negli Stati Uniti un’analisi chiamata Generation Alzheimer report calcola che dei 10 milioni americani che quest’anno compiono 65 anni uno su 8 si ammalerà di demenza e che, tra quelli che supereranno gli 85 anni, i malati saranno I su 2. Attualmente negli Usa si spendono 172 miliardi di dollari, nel 2050 serviranno più di mille miliardi. Queste le cifre di un’emergenza che si staglia minacciosa sulla popolazione, in particolare su quella anziana. Un allarme che è scattato in ogni Paese. Dal presidente Usa, Obama che ha avviato una legge per coordinare ricerca, cure e assistenza pubblica e privata. In Europa, Danimarca, Scozia, Inghilterra, Finlandia e Portogallo, sono attuati nuovi piani per affrontare l’emergenza, altri Paesi come Francia, Spagna e Germania, hanno messo in cantiere nuove ricerche, metodi di analisi e assistenza. In Italia, la cura, il sostegno al malato e alle famiglie dei pazienti affetti da demenza, sono il ritratto di una sanità che tra tagli e riduzioni diventa un labirinto burocratico per malati e medici che devono barcamenarsi tra problemi sempre più angoscianti. Il piano messo in campo è il progetto Cronos, avviato però nel 2000, che prevedeva l’istituzione sul territorio di circa 700 Uva (Unità di valutazione Alzheimer), strutture destinate a individuare i malati, valutarne il grado di compromissione, mettere a punto le terapie possibili e fornire i farmaci per i primi mesi, collaborando poi con i medici di famiglia. L’obiettivo era quello di creare una rete di centri di riferimento specialistici. Un piano che a distanza di dodici anni non ha tenuto il passo con la crescita della malattia, non ha individuato e compiuto una integrazione tra assistenza e terapia. In altri versi si prescrivono solo farmaci nell’impossibilità di prendersi cura in modo globale del malato. Attualmente le Unità di valutazione dell’Alzheimer dovrebbero essere 503, ma mostrano sul territorio nazionale una grande disomogeneità. Non solo non si sa nemmeno esattamente quali e dove sono, in alcune regioni hanno cambiato nome e finzioni e spesso non esistono elenchi ufficiali. In Lombardia è stato condotto un censimento delle strutture per i malati con demenza condotto dall’Istituto Mario Negri e dalla federazione Alzheimer Italia, per realizzare una banca dati online. Se in alcune regioni del nord ci sono centri di eccellenza, in altre regioni c’è solo un 25% di Uva, strutture aperte un solo giorno alla settimana e, ancora peggio, un 8% di Unità di valutazioni in cui è presente, quando può, un solo medico. I finanziamenti con cui sono nate le Uva servono oggi praticamente solo per i farmaci, tranne una piccola parte per la ricerca. Per la maggioranza dei casi i parenti di malati di Alzheimer devono arrangiarsi, spesso in modo drammatico, con le strutture e il personale esistente, tenendo conto che i pazienti con demenza richiedono molto impegno e molto tempo. «Nella maggior parte dei casi la famiglia non riesce a rispondere alle esigenze del malato», spiegano i responsabili abruzzesi dell’Associazione malati di Alzheimer, «talvolta si innescano tensioni familiari, in alcuni casi si assistono anche a rotture di rapporti, la gestione di un parente con l’Alzheimer è tra le cose più complesse che ci sono, per questo sono necessarie nuove iniziative legislative, un sostegno economico per la nascita di centri specializzati, una integrazione nell’assistenza familiare». Per far fronte all’emergenza della «generazione Alzheimer», serviranno davvero nuove risorse, più soldi per la ricerca, anche se l’emergenza arriverà probabilmente troppo presto per i tempi lunghi della scienza. Serviranno massicce risorse per un piano nazionale di assistenza. In Italia il costo dei pazienti non autosufficienti, in generale, ricade per la maggior parte sulle famiglie, perché, rispetto all’Europa, sono meno diffusi i servizi di assistenza domiciliare e residenziale. I dati economici a carico delle famiglie sono sconvolgenti e disastrosi. Per i circa 600mila pazienti italiani con l’Alzheimer servono, circa 60mila euro all’anno ciascuno, calcolando anche i mancati guadagni sia dei malati sia di chi li assiste.