Aids, battaglia finale

Corriere della Sera
Remuzzi Giuseppe

Andrea (non è il suo vero nome) arriva in ambulanza al pronto soccorso del Policlinico — a Roma — una sera d’estate del 1979. Febbrone da tre settimane, i farmaci fanno poco o nulla e il suo medico non sa più che pesci prendere. «Facile — dice ai suoi studenti il primo dottore che lo vede —. Febbre, linfoghiandole palpabili dappertutto, milza grande e cellule “mononudeate” nel sangue: mononucleosi, facciamo i test». Li fanno: negativi. E allora? Andrea ha 24 anni, sta male, con la sensazione dolorosa che in quell’ospedale non abbiano le idee chiare, nonostante tutti gli esami che gli hanno fatto fare. «Possibile che non ci sia nessuno che ci capisce qualcosa?», pensa.

Di lì a poco arriva da lui Giuseppe Giunchi — «il professore» — con una ventina di camici bianchi al seguito. Gli fanno vedere esami e lastre. Giunchi guarda tutto, poi mette la manona sulla pancia del ragazzo: «E una malattia nuova» dice rivolto a Pietro Serra. «Nuova?». «Io una malattia così non l’ho mai vista». Andrea muore nell’87. Di Aids. È il primo in Italia.

Giunchi ci aveva visto giusto (come sempre): era «una malattia nuova». Giovani adulti con infezioni mai viste prima e senza difese immunitarie — omosessuali e tossicodipendenti soprattutto — morivano e nessuno sapeva perché. Siamo dovuti arrivare all’83 prima che Francoise Barré-Sinoussi, nel laboratorio di Luc Montagnier a Parigi, isolasse il virus responsabile dell’epidemia.

Un anno dopo Margaret Heckler annunciava negli Stati Uniti che il vaccino contro il virus dell’Hiv sarebbe stato pronto in due anni. Intanto chi si ammalava continuava a morire; e la malattia si diffondeva come nessun’altra prima di allora. Nell’87 arriva il primo farmaco Azt (sta per Azidotimidina). I risultati di due anni di trattamento autorizzano a sperare, ma le cure vanno fatte ogni giorno e più volte al giorno e hanno un sacco di effetti negativi: molti pazienti rinunciano, meglio la malattia dei farmaci insomma. Fra l’altro dopo 5 o 6 anni tutti quelli che si ammalano di Aids muoiono come prima, con o senza Azt. Si prova a combinarla con altri farmaci, più nuovi. Così è meglio, la cura è meno difficile da seguire e di Aids si comincia a morire di meno. E si spera sempre nel vaccino: ci lavorano in tanti in ogni parte del mondo, ma non c’è verso di averne uno efficace. Un po’ perché l’Hiv cambia continuamente e sfugge al controllo del sistema immunitario. Un po’ perché il virus vive proprio nelle cellule responsabili della risposta immune, le uccide e questo rende tutto più difficile. Non basta, studi su un gruppo di volontari fanno comprendere che se uno si vaccina, ha persino più probabilità di ammalarsi. Insomma sul vaccino per ora non ci si può contare. L’Aids esce dalla cerchia degli omosessuali e dei tossico-dipendenti. Comincia ad ammalarsi chi non è mai stato considerato «a rischio». Persone di 40-50 anni, quasi sempre senza problemi economici, si infettano dopo incontri occasionali, senza la minima idea di aver preso l’Hiv: stanno bene per anni e così infettano altri — spesso il partner, quasi sempre la moglie, sempre all’oscuro di tutto.

Il vero passo avanti arriva alla metà degli anni Novanta: farmaci davvero efficaci — il Lamivudina inibisce l’enzima che serve al virus per moltiplicarsi — che, se combinati con qualcuno della stagione precedente, si possono prendere anche una volta sola al giorno e nemmeno tutti i giorni, secondo certi studi. Non solo: queste pillole, date in gravidanza a donne infette, evitano che il bambino prenda l’Hiv durante il parto, cosa che fino a pochi anni prima nessuno poteva immaginare. Stessa cosa per l’allattamento al seno: il virus col latte di solito passa dalla mamma al bambino; se la mamma prende quei farmaci, questo non succede più. E c’è una buona notizia per chi lavora negli ospedali a contatto con i malati di Aids. Se medici e infermieri si feriscono accidentalmente con aghi o ferri chirurgici contaminati, basta che prendano subito i farmaci per evitare il contagio. Qualche anno dopo arrivano Tenofovir ed Emtricitabina: i ricercatori dimostrano che l’assunzione per tempo di questi farmaci — appena il virus entra nel sangue o subito dopo — evita l’infezione e — di conseguenza — la sua trasmissione.

Adesso cosa resta da fare? Incoraggiare sempre, comunque, l’uso del profilattico. Chi si prostituisce, chi ha più di un partner o rapporti occasionali con persone che non conosce ha il dovere morale di proteggere se stesso e ancora di più altri, e lo si fa con il preservativo, che resta il modo più efficace per evitare il contagio. E poi va fatto il test in tutte le occasioni possibili. Certamente a chi è a rischio — omosessuali, drogati per endovena, chi si prostituisce — ma anche a tutti gli altri, giovani e adulti fino a 65 anni. Chi ha fatto il test e sa di essere positivo è più attento. E poi bisogna curare i sieropositivi prima che si ammalino. Questo da noi.

E nei Paesi poveri? C’è stata una grande mobilitazione per portare i farmaci anche a chi è meno fortunato di noi e oggi al mondo almeno 4 milioni di persone ammalate di Aids ricevono i farmaci anti-retrovirali. Ma ce ne sono 8 milioni — e tanti sono bambini — che ne avrebbero bisogno, e non riusciamo a farglieli avere. Per curare quelli che si sono già infettati con il virus dell’Hiv, servirebbero almeno 30 miliardi di dollari, ce ne sono solo 15 che vengono un po’ da grandi donatori privati un po’ dai governi (soprattutto Stati Uniti, Inghilterra e Giappone). Al meeting dell’Aids del 2011 Hillary Clinton ha parlato di «Aids-free generation»: stiamo andando verso una generazione finalmente libera dall’Aids, insomma. Qualche anno fa la rivista «Lancet» ha pubblicato un lavoro molto importante: <<Test per l’Hiv volontario per tutti come strategia per eliminare l’Hiv». Se lo si facesse in una popolazione vulnerabile come quella del Sud Africa, la trasmissione del virus si ridurrebbe a meno di un caso per mille persone, per anno. Alla lunga le persone non si ammalerebbero più e si risparmierebbero un sacco di soldi. Prima però devono cadere pregiudizi e paure che circondano Aids e ammalati di Aids da più di trent’anni.

Per la gente se uno ha l’Aids è quasi sempre perché se l’è cercata. Così chi teme di aver contratto l’infezione si isola, non trova mai il momento giusto per fare il test, di fatto preferisce non sapere. E quando si decide a farlo, se poi scopre di essere sieropositivo, preferisce non andare dal medico o quanto meno non andarci subito. E così prima o poi infetta qualcuno. E poi c’è il caso delle donne: le donne che sono state infettate dal marito sono discriminate allo stesso modo di chi contrae il virus per comportamenti a rischio. In realtà quello dell’Aids è un virus come tutti gli altri, come quelli del morbillo e della poliomielite. Ce l’avevano addosso gli scimpanzé e altre scimmie, ma le scimmie di solito non si ammalano. All’uomo il virus è arrivato dopo che in certi primati si sono ricombinati diversi ceppi di virus, fino ad arrivare all’Hiv-1. Deve essere successo dalle parti del Gabon e i primi a infettarsi sono stati i cacciatori che uccidevano e scuoiavano le scimmie per mangiarle. Un tempo quei cacciatori vivevano in aree remote rispetto alle grandi città, aree poco popolate. E per moltissimi anni l’infezione è stata confinata in quelle regioni. Chi si ammalava prima o poi moriva e con lui morivano i virus che aveva addosso. Poi, con un po’ di progresso, anche in quelle zone dell’Africa sono arrivate le strade, che hanno portato piccoli insediamenti abitativi e mercati dove succede un po’ di tutto: si macella carne di scimmia, fra l’altro, e la si vende.

C’è molta più gente che vive insieme, a volte in spazi piccoli, e la malattia si diffonde, il virus passa da una persona all’altra col sangue e ancor più con l’attività sessuale. Il resto lo fa la facilità con cui si viaggia da un capo all’altro della Terra. Il virus dell’Hiv s’era già diffuso dappertutto dai primi anni Ottanta, gli anni di Andrea e del professor Giunchi. E allora furono in molti a temere che avrebbe vinto il virus. Non è stato così, ha vinto la scienza. Ma la retromarcia dell’Aids, uno dei successi più importanti della medicina di oggi, non finisce qua. Adesso tocca alla società civile, alla gente di buona volontà, alle multinazionali del farmaco e ai potenti del mondo. La prossima generazione siamo noi a doverla liberare dall’Aids. Il modo c’è.