A proposito del “diritto all’amorevolezza”

Lettera di Carlo Flamigni al Quotidiano Sanità

Gentile Direttore,
la lettera della ex ministra Livia Turco, pubblicata su QS, ha suscitato queste mie considerazioni sulla “amorevolezza”. So che l’uomo si affida alla ragione per la propria sopravvivenza e alla metafisica per la propria consolazione, ma che si affidi anche alla retorica, questo no, proprio non lo sapevo. Ma prima di parlare di questa “amorevolezza” (ma che brutta parola!) lasciatemi dire qualcosa sul dolore

Il primo problema di cui voglio parlare riguarda il diritto di morire, di rinunciare ad esistere quando proprio non ce la facciamo più, quando il dolore ha sopraffatto ogni nostra capacità di resistere, fino ad indurci a porre termine alla nostra esistenza, ammesso di non avere contratto debiti con la società. Ma esiste il diritto di chiedere a un medico, a un amico, di aiutarci a compiere quel passo? E dopo che abbiamo abbandonato il nostro corpo, quando non lo abitiamo più e la vita in lui non ha altro scopo se non quello di far crescere la barba e di stimolare la contrazione dell’intestino, abbiamo ancora il diritto, noi per l’averlo lasciato scritto da qualche parte, le persone che ci hanno voluto bene per rispettare i nostri ultimi desideri, di imporre ai medici di smetterla di torturare inutilmente quel povero guscio vuoto e di lasciare che si spenga in lui anche l’ultima, inutile scintilla di vita biologica?

Personalmente ritengo di essere padrone della mia esistenza, ma rispetto coloro che la pensano diversamente da me e ritengono che l’esistenza non ci appartenga ma ci sia stata data con uno strano dono che esige una restituzione. Chiederei,  penso di averne il diritto, altrettanto rispetto.

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