È difficile parlare della Lombardia senza pensare al suo Presidente, Roberto Formigoni. Vengono in mente le firme false che gli hanno consentito di essere eletto per la quarta volta a ricoprire la stessa carica (nonostante la legge nazionale lo vieti), le indagini e i processi che negli ultimi mesi hanno sempre più coinvolto lui e molti tra i suoi più stretti collaboratori.
Ma la Lombardia è anche un modello, descritto per la sua sanità di avanguardia, per la sua amministrazione efficiente, per i servizi.
L’argomento che viene con insistenza riproposto dai sostenitori del sistema formigoniano costruito negli ultimi due decenni in Lombardia è che tutto funziona alla perfezione, e che quindi si deve trattare di un buon modello.
Ma anni di buona stampa e un sapiente uso dei mezzi di comunicazione e della propria immagine di leader vincente non possono bastare a Formigoni per nascondere quelli che, sempre più evidenti, sono gli insostenibili costi economici e civili, in termini di diritti negati, del suo Modello.
Nell’introduzione del dossier “La Peste Lombarda”, curato da Valerio Federico, Luca Perego e Giorgio Myallonnier, pubblicato integralmente su Agenda Coscioni e sul sito dell’Associazione, si legge tra l’altro: “L’Istituzione lombarda è sinonimo di Formigoni. Il presidente della regione più forte – economicamente parlando – del nostro paese, ha costruito nell’arco di questi anni un sistema clientelare basato sul trinomio Religione-politica-affari, ponendo le fondamenta di una discriminazione tra coloro che sono parte di questo sistema e coloro che non ne sono parte o più semplicemente non l’accettano. Tutto questo è stato possibile grazie a Cl”.
Il Sistema Lombardia si fonda sulla rete di “amicizie” di Comunione e Liberazione, un movimento ecclesiale tra i cui scopi vi è la “collaborazione alla missione della Chiesa in tutti gli ambiti della società contemporanea”, inclusa l’amministrazione di una Regione, e della Compagnia delle Opere, il suo braccio economico, una vera e propria “Confindustria confessionale”.
Eugenio Scalfari si è spinto a dire che “un sistema di potere come quello di Formigoni, Cl, non esiste in alcun punto del Paese […] Nemmeno la mafia a Palermo ha tanto potere. Negli ospedali, nell’assistenza, nell’università, tutto è diretto da quattro-cinque persone”.
Solo che gli uomini di fiducia nominati in ruoli apicali, quasi tutti affiliati a Cl, sono molti, molti di più. In 17 anni sono stati occupati tutti i posti di rilievo, spesso facendo in modo che le stesse persone sommassero più di una carica: dagli assessorati ai consigli di amministrazione della società aeroportuale Sea, della Fiera, del Politecnico. Dai consigli di sorveglianza delle controllate Infrastrutture Lombarde e Lombardia Informatica agli alti dirigenti.
Con una particolare predilezione per il settore sanitario, che da solo rappresenta più del 70% del bilancio regionale.
Il fatto è che proprio questa sanità, fiore all’occhiello dell’amministrazione ciellina, non è sempre all’altezza della propria fama. Berlusconi, concludendo dal palco le elezioni regionali del 2010, presentava il suo candidato Formigoni come il fautore della migliore sanità d’Italia e d’Europa, meta di pellegrinaggi di massa dalle regioni rosse per potersi fare curare. Il cosiddetto “sistema bersaglio” lanciato in un Convegno dell’Associazione Luca Coscioni da Marcello Crivellini, Professore Associato di Analisi e Organizzazione di Sistemi Sanitari al Politecnico di Milano al Ministero della Salute, e attuato proprio nel 2010 dal Ministro Ferruccio Fazio, rende parametrati i risultati sanitari. La Lombardia sarebbe scavalcata proprio dalle “Rosse” Emilia Romagna e Toscana, dal Veneto, e sarebbe in linea con le altre regioni del nord Italia, secondo una frattura tutta geografica. Un buon sistema, ma per ragioni storiche e territoriali, che si colloca tra i migliori d’Europa a partire dal 1400, e che ancora oggi si regge nonostante l’infiltrazione della politica, l’eccessiva ospedalizzazione e l’impoverimento dei piccoli presidi territoriali.
Un sistema dove, secondo l’inchiesta curata da Mariano Maugeri e Giuseppe Oddo per il Sole 24 Ore, sono 6 i miliardi “sborsati dai cittadini lombardi per pagarsi di tasca propria le prestazioni che il pubblico non riesce a garantire in tempi e modi accettabili”. Liste d’attesa brevi, insomma, ma solo perché i cittadini sono disposti a pagare profumatamente le visite private pur di saltare le file. Nonostante l’irpef nella regione sia la più alta applicabile, l’1,4%.
Un sistema dalla discrezionalità troppo accentuata nella concessione di finanziamenti alle strutture amiche, dove i primi due centri convenzionati si prendono da soli la metà della fetta spettante al privato. E che si presta a far proliferare le truffe verso il servizio sanitario, se è vero quanto afferma l’ex assessore leghista alla sanità Alessandro Cè, cacciato perché troppo ingombrante, che spiega come a fronte di un fiume di 16,5 miliardi di spesa sanitaria solo il 6% delle prestazioni rimborsate alle strutture venga effettivamente controllato, ma “con verifiche concordate, con la visita degli ispettori anticipata da una telefonata”.
Nulla da dire, da radicali, sulla concorrenza pubblico – privato. Ma quello messo in piedi non è un sistema di mercato. Sul pubblico si scaricano le prestazioni meno profittevoli, mentre il privato è affollato delle specialità più remunerative, in base a quanto rimborsato agli ospedali per ogni prestazione erogata. in Lombardia ci sono più centri di cardiochirurgia che in Francia.
Senza parlare, sta indagando la magistratura, della discrezionalità delle leve per poter accedere agli accreditamenti, e ai fondi, in un contesto dove la conoscenza politica conta come e più del merito.
Basta pensare alla procedura fissata dalla legge regionale n. 33 del 2009 per la nomina del direttore generale, con provvedimento della Giunta regionale in base a requisiti soggettivi che ammettono “tutte le cariche e le attività esercitate dall’interessato, anche a titolo di mandato politico e amministrativo regionale, purché svolte nei dieci anni antecedenti alla presentazione della candidatura”.
Il risultato di tutto ciò, che vorrebbe essere un modello virtuoso da esportare, con il feticcio della sussidiarietà, a tutta la nazione, lo vivono i lombardi sulla propria pelle. L’ingerenza ideologica e clericale della politica sulla scienza ha portato la Lombardia ad emanare norme più restrittive di quelle nazionali sull’interruzione volontaria di gravidanza, almeno fino alla sentenza che le ha dichiarate illegittime. Si sono emanati regolamenti sulla sepoltura obbligatoria dei feti nei cimiteri lombardi, si finanziano i centri di aiuto alla vita all’interno delle strutture dove si effettuano le interruzioni di gravidanza, peraltro rese sempre più difficoltose dal dilagare dell’obiezione di coscienza dei medici ginecologi, che non vogliono vedere compromessa la propria carriera in un ambiente ostile alle IVG.
La presenza ecclesiastica nelle strutture sanitarie è rafforzata anche anche da accordi specifici messi a punto da Formigoni, per esempio con il Protocollo di Intesa tra Regione Lombardia e Regione Ecclesiastica Lombardia, che prevede l’obbligo per tutte le strutture pubbliche e private accreditate ad assicurare l’assistenza religiosa (di solo “culto cattolico”) ai ricoverati, a spese del pubblico.
Ma il caso più emblematico resta quello di Eluana Englaro, quando il padre Beppino fu costretto a rivolgersi ad un’altra regione per vedere rispettata la sentenza che certificava le ultime volontà della figlia dopo le minacce di ritorsione di Formigoni sulle strutture di cura lombarde.
Casi locali, ma fino a un certo punto, perché riguardano il rispetto della legalità e del diritto, la necessaria laicità delle istituzioni, la finestra di informazione e trasparenza che serve aprire su sanità e pubblica amministrazione. La Lombardia, governata da un presidente abusivo che pur di rimanere al potere ha dovuto mettere insieme firme false (raccontando che erano in realtà frutto di un complotto dei radicali!) non è un’eccellenza, come ci dobbiamo sforzare di dimostrare, ma l’emblema oggi più visibile e stridente di come per anni maggioranza e opposizioni si siano supportate a vicenda, in un sistema capace di propagarsi senza colore politico attraverso spartizioni e meccanismi clientelari. Contrastarlo da Milano vuol dire perciò porre il caso Lombardia come tassello del Caso Italia, scongiurandone il contagio e preparando un’alternativa autenticamente radicale.