Analizzare giuridicamente i rapporti tra il “corpo del diritto” (e, dunque, la legalità) e i corpi concreti degli uomini e delle donne” (cui il diritto si rivolge) è di centrale importanza nella riflessione giuridica contemporanea.
Anche perché il diritto ha, per lungo tempo, apparentemente escluso (e talvolta ancora apparentemente esclude) il corpo dal panorama delle sue discipline e riflessioni. L’idea della cosiddetta “persona fisica” – un concetto cardine per il ragionamento giuridico – è stata così spesso utilizzata come uno schermo collocato «al posto dell’essere umano identificato dal suo corpo» (C.M. Mazzoni). Non a caso, il termine “persona” deriva dal greco prosopon e poi dal latino persona, in cui la parola identificava la “maschera” utilizzata a teatro.
Così, tutti i grandi codici ottocenteschi, pur aprendosi con una parte dedicata alle persone, ne ignoravano del tutto la fisicità (S. Rodotà). In Italia, solo con l’art. 5 del c.c. del 1942 – elaborato dopo una discussa vicenda napoletana di trapianto di testicolo contro corrispettivo (un tema che oggi definiremmo insomma bioetico) – il corpo fece la sua prima vera “irruzione” sulla scena del diritto. E ciò avvenne nel modo più tradizionale: l’uso del corpo, non gradito al potere, viene proibito (Breccia-Pizzorusso).
Questa eclisse concettuale e giuridica ha finito per garantire ampi spazi di manovra al potere: la storia insegna infatti che è più facile agire (anche violentemente) sui corpi (e, quindi, sulle persone) se ci si dimentica che cosa essi realmente siano. E’ anzi proprio in questo pericoloso passaggio mentale che trovano origine i razzismi, gli stermini o le torture, nonché la legittimazione della violenza sui corpi di chi è segregato in carcere o è occasionalmente privato della libertà oppure è recluso – senza date di scadenza – in un OPG).
Com’è peraltro sottolineato da molti, il Novecento inoltrato è stato il secolo che ha dovuto riscoprire il “corpo” e la “persona”. Del resto non poteva essere altrimenti, tenendo conto che le Costituzioni del Secondo Dopoguerra vengono elaborate dopo le tragiche esperienze delle vicende belliche e delle torture, delle folli sperimentazioni attuate nei lager nazisti e dei tentativi qui praticati – e troppo spesso purtroppo, riusciti – di distruggere le persone agendo sui loro corpi (Primo Levi).
Oggi è quindi ormai diffusa la consapevolezza che, come infatti scrive la filosofa Michela Marzano, <<ogni azione che facciamo ed ogni relazione che instauriamo mettono in gioco la nostra corporeità>>. Esiste cioè – come sottolinea il giurista Paolo Zatti – un’evidente <<corporeità dei diritti della persona>>, ovvero – come ha scritto lo scrittore premio Nobel Wole Soyinka – il corpo costituisce <<il territorio dei diritti>>.
Insomma, appare ormai chiaro che il corpo – in quanto involucro della persona – è ormai diffusamente percepito per quello che effettivamente è: lo strumento con il quale (ineluttabilmente) esercitiamo (o scegliamo di non esercitare) i nostri diritti; incidendo sui corpi si comprimono quindi (e contemporaneamente) questi nostri diritti. Ampliando i diritti (qualsiasi diritto, anche i più lontani dalla “fisicità”) si ampliano invece le possibilità dei nostri corpi (es.: sentenza cost. n. 49/1971: art. 21 e diffusione dei metodi contraccettivi).
Era del resto un approdo inevitabile: non è infatti un caso se la prima libertà venuta storicamente a coniarsi – vero e proprio prototipo delle successive – è stata appunto l’habeas corpus.
Aveva insomma perfettamente ragione Simone de Beauvoir, allorché scriveva che <<la presenza nel mondo implica… il porsi di un corpo che sia contemporaneamente una cosa del mondo e un punto di vista sul mondo>>.
E’ proprio per questo che il corpo costituisce la prima sede in cui il potere (ovvero, “il mondo” latamente inteso) tende, in vario modo, a espandersi (consentendo, impedendo, imponendo): ne costituisce un esempio l’eterna competizione (quanto mai ancora in auge, specie in Italia) tra potere temporale e potere religioso per il controllo di esso. Ma un caso tipico ed estremo di questa considerazione dei corpi da parte del potere si ha, ad esempio, nello stupro di guerra (De Luna): << per gli eserciti vittoriosi gli stupri diventano l’occasione per l’esercizio di un potere anche simbolicamente straripante, in grado di espropriare gli sconfitti non solo della loro dimensione pubblica ma anche di quella privata>>.
Era tutto già molto nitidamente descritto in quell’affascinante opera antropologica che risponde al titolo di “Masse e potere” (1960). Elias Canetti ci fa così comprendere, proprio nel fulminante inizio di quel sorprendente libro, quanto sia illusorio (e astratto) ragionare del potere senza riflettere sulla concreta configurazione del rapporto che sussiste tra un qualsiasi comando proveniente da un qualunque centro di potere e i corpi di coloro che lo subiscono. Ogni comando, anche il più innocuo, nasconde in sé la minaccia di un’aggressione dei corpi e – addirittura – una minaccia di morte (o quanto meno ci rammenta, in scala, che ci sono anche comandi che celano minacce di morte). Non a caso, il prototipo del comando è il ruggito del predatore che annuncia, appunto, l’aggressione fisica e ordina la fuga.
Il corpo, dunque, è da sempre il luogo di un tipico problema di diritto costituzionale. Esso costituisce infatti il decisivo momento d’incrocio tra le libertà della persona e il potere (per tutelare le quali – libertà – e per porre argini al quale – potere – le stesse Costituzioni sono state progressivamente concepite). Il “corpo” costituisce poi il prototipo di ogni minoranza, la tutela delle quali costituisce un’altra, tipica preoccupazione di tutte le Costituzioni veramente democratiche.
Quali rimedi, dunque, per intervenire allorché i rapporti tra il potere e i corpi ci appaiano “malati”? Per citare Claudio Magris, sono solo i c.d. “valori freddi” (ovvero le formali garanzie giuridiche previste in Costituzione, nelle leggi e nelle regole) a permettere agli uomini in carne e ossa di coltivare personalmente i propri “valori caldi” (ovvero, i sentimenti e le passioni). Ma – aggiunge Magris – per consentire ciò le regole giuridiche devono muovere dal presupposto che esistono tanti cuori, ognuno con i suoi insondabili misteri e le sue appassionate tenebre. E qui lo scrittore evoca – utilizzando i suoi strumenti – un tipico principio che caratterizza le Costituzioni democratiche: il principio pluralista.
Il tema dei rapporti tra il diritto e i corpi va dunque approfondito proprio in questa direzione.
Tale approfondimento:
– permetterà così di portare più chiaramente alla luce un particolare “punto di vista” insito nella Costituzione, una possibile “chiave di lettura”che trasversalmente la permea e – di rimando – dovrebbe plasmare l’attività politico-legislativa, l’elaborazione dottrinale e il formarsi della giurisprudenza. Una chiave di lettura non semplicemente riferibile alla distinzione tra prese di posizioni liberali e il loro contrario, tanto è vero che liberali e liberisti estremi non sempre la adottano (v. il caso USA), ma che affonda in una precisa concezione della Costituzione e del diritto, oltre che del loro utilizzo in concreto.
Si tratta di un punto di vista al quale si contrappone spesso (non solo in Italia)una ben diversa prospettiva di utilizzo della Costituzione e del diritto, benché – come vedremo – possano però più facilmente qualificarsi illegittimi alcuni prodotti dottrinali, legislativi e giurisprudenziali di questo approccio alternativo.
Per sintetizzare l’essenza di tali atteggiamenti contrapposti, utilizzerò le formule – forse anche semplicistiche ma immediatamente comprensibili – che rinviano a un approccio giuridico “dal basso” e (di contro) “dall’alto”.
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DAL BASSO: un’impostazione attenta alla concreta/complicata sfaccettatura del reale e dei problemi ai quali occorre offrire risposte dottrinali, legislative e giurisprudenziali.
Una prospettiva che pone al suo centro una visione appunto “concreta” della persona e del principio personalista sancito in Costituzione (sin dal suo art. 2), dando risalto ai contesti e ai fatti in cui la persona stessa è coinvolta, favorendo altresì soluzioni flessibili in grado di plasmarsi sulla fisionomia dei diversi casi. Ciò perché si ritiene che l’affermarsi, in Costituzione – come poi dirò – di una nuovaconcezione antropocentrica della persona non può non recare con sé anche una nuova concezione del corpo che quella persona reca. E non può non tenere conto che ogni corpo, ogni persona, ogni malato, ogni contesto è diverso.
Una prospettiva, quest’ultima, che mette in conto un uso anche non scontato – da parte dei singoli – dei diritti riconosciuti in Cost. (che è poi la conseguenza derivante dal riconoscimento di ogni vera libertà). E che declina quindi in modo più inclusivo lo stesso principio pluralista (anch’esso variamente disciplinato in Costituzione). Con ciò chiaramente evitando, più di altri approcci, il rischio di <<una totalitaria tirannia dei valori>> di qualcuno sugli altri (Carl Schmitt);
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DALL’ALTO (al contrario) è un atteggiamento in cui prevale un’idea astratta e comunque assai più rigida (e spesso “preconfezionata”) della persona e dei suoi interessi. Esso si riscontra allorché un’ideologia (politica, religiosa, morale ecc.) viene fatta precipitare su tutto e su tutti, ammettendo ben poche eccezioni e senza troppo badare alle situazioni concrete in cui essa deflagra.
Una logica che induce talvolta a declinare il personalismocontro le stesse volontà pur costituzionalmente compatibili dell’interessato e a isterilire con ciò molte radici delpluralismo.
Accogliere l’una o l’altra strada non è indifferente per il laico. Roberto Roversi, Il laico pensiero: <<il pensiero laico è quello che pensa (che crede) che le cose parlano sorgendo dalla terra, non precipitando paurose, ammonenti dall’alto dei cieli>>. E non è un caso che la bioetica del Card. Martini sia stata criticata, all’interno del mondo cattolico, perché troppo vicina alle situazioni concrete delle persone, di contro alla bioetica ufficiale della Chiesa che deve invece essere – così è stato detto (chissà mai perché) – fredda, dura, severa, tagliente (Vito Mancuso criticando un intervento di Francesco D’Agostino).
Esistono però precisi segnali giuridici i quali inducono a concludere che l’ordinamento costituzionale si sia strutturato e prediliga perciò un tracciato che risponda ai requisiti di un approccio“dal basso”. Ne cito solo alcuni.
1) la già ricordata centralità, in Costituzione – e sin dagli artt. 2 e 3 Cost. – della persona concreta, rispetto allo Stato e alle sue esigenze. In ciò si realizza un vero e proprio ribaltamento rispetto alle esperienze precedenti (la “piramide rovesciata” di cui parlò Aldo Moro a latere dei lavori costituenti): si scolpisce cioè in Costituzione la funzionalizzazione dello Stato alla tutela e alla fioritura dei singoli e non viceversa, come accadeva invece durante il fascismo (G. Amato).
Cfr.: sentenza n. 219/2008: «Il fine ultimo dell’organizzazione sociale» è «lo sviluppo di ogni persona umana» (sentenza n. 167 del 1999), il cui valore si pone al centro dell’ordinamento costituzionale: compete al legislatore approntare il più efficace dei sistemi di tutela, affinché esso non venga compromesso>>.
I diritti evocati dall’art. 2 Cost. e poi puntualmente disciplinati agli artt. 13 ss. Cost. – sono così <<garantiti al singolo indipendentemente dai vantaggi o dagli svantaggi che possono derivare allo Stato>> o a qualunque altra agenzia di potere (C. Esposito). Perciò, esiste ora la libertà del singolo di decidere e autodeterminarsi in ordine a numerose vicende che in vario modo coinvolgono il “suo” essere fisico. La Corte costituzionale si trova del resto costretta a ripeterlo più volte:
– sentenza n. 18/1986 (il corpo umano non è mai avulso dalla persona)
– sentenza n. 471/1990 (libertà personale come potere della persona di disporre del proprio corpo).
2) Segnali strutturali: il carattere diffuso del potere giudiziario, così da collocare i singoli organi-potere che lo compongono nel luogo più vicino ai fatti che coinvolgono le persone concrete. Da loro prende quindi avvio un percorso che, risalendo la corrente, può giungere sino alla Corte costituzionale, e ritornare poi alla base mediante, ad esempio, una decisione d’illegittimità costituzionale che annulla erga omnes una legge pur voluta dal Parlamento (Bin).
3) il “circuito della politica” che dal basso prende inevitabilmente le mosse, dovendovi poi ritornare almeno con riguardo agli effetti delle sue decisioni e dei suoi prodotti normativi, nonché ove occorra imprimere una nuova spinta legittimante al circuito stesso (responsabilità politica e nuove elezioni) (Bin).
4) La dinamica del referendum abrogativo d’iniziativa popolare ex art. 75 Cost.
Già in questi pochi esempi è frequente l’uso della figura geometrica del “circolo“. Che trova una sua ulteriore espressione nell’idea del cd. “circolo ermeneutico”; la necessità che le norme (disposizioni interpretate) si ricavino non già in astratto bensì “dal basso”, ossia anche e soprattutto a partire dalla loro interazione con il <<contenuto dei contesti umani>> in cui esse sono chiamate ad operare (C. Lavagna). Una chiara applicazione di questo stesso movimento si riscontra nelle c.d. deleghe di bilanciamento in concreto rivolte ai giudici ma non solo (anche, significativamente, ai medici: sent. n. 282/2002 e altre – consenso informato – e n. 151/2009 – sulla pma -): in queste decisioni la Corte costituzionale non delinea un’astratta regola di prevalenza bensì una più flessibile “regola di competenza”, atta a definire i soggetti nonché i criteri e le sedi nella quali andranno risolti i casi in discussione, con l’immancabile coinvolgimento dell’interessato.
IN DEFINITIVA: le decisioni (legislative, giurisdizionali e costituzionali in primis) sul corpo costituiscono un “sismografo” alquanto sensibile. Consentono di verificarese, in quel particolare momento storico, stia prevalendo la prospettiva “dall’alto” o “dal basso”, ovvero un atteggiamento favorevole od ostile all’ampliamento delle libertà della persona.
Sono numerosi gli esempi del nostro passato (più o meno recente) in qui le coordinate e il braccio di ferro appena descritti si sono manifestate.
Si pensi alla legge n. 164/1982 sulla rettificazione di sesso (Transessualismo).
La legge pone termine a un braccio di ferro tra i giudici di merito (che “dal basso”, in assenza di norme, adottavano spesso interpretazioni adeguatrici in materia di rettifica dei registri dello stato civile a seguito del mutamento chirurgico dei tratti sessuali) e la Cassazione (che recisamente lo negava).
Approvata la legge n. 164, sin da subito sono stati sollevati dubbi sulla sua legittimità, avanzati da giuristi, giudici e medici legali, che chiaramente muovevano da una prospettiva “dall’alto”. Era così frequente, nel tenore delle obiezioni, il richiamo all’idea della “natura violata” e allo “scempio dei corpi” provocato dall’intervento chirurgico. Di quest’ultimo si metteva poi in evidenza il contrasto conla lettera dell’art. 5 del c.c. del 1942. Si invocava poi la necessità di tutelare la persona, il suo corpo e i soggetti che fossero entrati in rapporto con il transessuale anche contro le intime convinzioni e condizioni vissute dal/dalla diretto/a interessato/a. La Corte replica (sent. n. 161/1985) utilizzando invece l’art. 32 Cost. (diritto alla salute), e provando così che l’entrata in vigore della nostra Cost. rigida (e perciò gerarchicamente sovraordinata su qualsiasi altra fonte del diritto) ha radicalmente trasformato (e praticamente ribaltato) la ratio dello stesso art. 5 c.c.: sono ora permessi atti di disposizione del proprio corpo che, pur cagionando diminuzioni permanenti dell’integrità fisica, siano tuttavia finalizzati a tutelare la salute e garantire la realizzazione di. Al centro di simili ragionamenti è posta dunque la persona “in concreto” e non “in astratto”. Ed è una norma costituzionale a consentirlo.
Afferma così la Corte (in una sorta di summa di quanto ho sin qui detto) che <<il transessuale… obbedisce ad una esigenza incoercibile, alla cui soddisfazione é spinto e costretto dal suo “naturale” modo di essere>>. La legge n. 164 produce perciò <<una normativa intesa a consentire l’affermazione della loro personalità e in tal modo aiutarli a superare l’isolamento, l’ostilità e l’umiliazione che troppo spesso li accompagnano>>. <<La legge n. 164 del 1982 si colloca, dunque, nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e dignità, della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie ed anomale>>.
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La giurisprudenza prevalente (e anche recente) ha quindi risolto, in via d’interpretazione adeguatrice, molte questioni lasciate aperte dalla disciplina piuttosto lacunosa della legge n. 164, accedendo alla stessa prospettiva “dal basso”.
Ma anche qui, non senza il riaffiorare – in talune pronunce – della prospettiva esattamente opposta: ad esempio, con la sentenza del Tribunale di Brescia 15 ottobre 2004 la prospettiva “dall’alto” fa di nuovo capolino, negando le più consolidate interpretazioni adeguatrici.
Un ennesimo sintomo dell’eterno braccio di ferro tra i due diversi approcci.
Aborto. “Dall’alto” è sicuramente l’approccio che non dà rilievo al fatto evidentemente “complesso” della gravidanza, affermando così l’esigenza di tutelare il bene-vita del nascituro “sempre e in assoluto”, ovvero puntando – com’è stato scritto – a una <<protezione del valore indipendente della vita>> (I. Nicotra). Non si tiene dunque in alcun conto del fatto che – nel caso concreto – la vita dell’embrione o del feto non è per nulla indipendente. La presenza del feto viene dunque concettualmente estratta dal corpo materno: in ciò sta l’astrazione di una simile prospettiva.
“Dal basso” è invece l’approccio che procede a una mappatura dell’intera e concreta trama degli interessi costituzionali propri ai diversi soggetti protagonisti della vicenda, individuando quello che deve necessariamente prevalere e il momento fino al quale ciò vale. Per questa impostazione, l’esistenza un corpo che sta dentro il corpo di un altro e fa parte di un processo biologico che è di quel corpo (C. Mancina) non può insomma mai essere dimenticata.
Il fatto complesso e concreto della gravidanza e della sua interruzione è così valorizzato dalla Corte che lo declina nero su bianco nella sentenza n. 27/1975 e successive (ove sono frequenti i richiami alla <<particolarissima condizione>> della gravidanza; alle particolari caratteristiche dei diritti del feto, alla <<del tutto particolare>> condizione della gestante). Così anche la Corte Edu (Vo v. France 2004 ed Evans v. UK 2006: il diritto alla vita del feto, se esiste, è implicitamente limitato dai diritti e dagli interessi della madre. In X v. UK 1980: la vita del feto è intimamente connessa e non può essere giuridicamente isolata dalla vita della donna in gravidanza). Ancora “concretezza” contro astrattezze ideologiche.
Sono tuttavia numerosi i tentativi perennemente in corso (e frutto della prospettiva “dall’alto”) di svuotare dall’interno la logica della legge n. 194:
– i giudici tutelari e la loro pretesa di obiettare (la Corte replica affermando che il sindacato dei giudice tutelare è solo “esterno” – deve verificare che la minore sia in grado di prendere una decisione matura – né essi devono applicare le norme sui presupposti dell’intervento abortivo. Il g.t. è inoltre soggetto all’obbligo di applicare la legge, garantendo la funzionalità della giustizia, non potendo quindi obiettare). Da ultimo si v. l’ordinanza n. 196 del 2012.
– trasformare la ratio del colloquio cui si deve sottoporre la gestante, attribuendogli fini evidentemente dissuasivi;
– amplificare il ruolo del padre del concepito e dei genitori della minore (anche contra chi possiede il corpo direttamente coinvolto nella vicenda). Da ultimo, cfr. l’ordinanza n. 126 del 2012.
– Uso dell’obiezione di coscienza, estesa alla stessa contraccezione d’emergenza (pillola del giorno dopo), della quale si tenta così d’impedire l’assunzione. Si tenta anzi di bloccarne la distribuzione: replica “pluralista” di TAR LAZIO, sez. I, 12 ottobre 2001, n. 8465.
– Ostacoli evidentemente strumentali alla diffusione della RU486 e di Ellaone (5 giorni, previo test di gravidanza), al fine di rendere impossibile, alla diretta interessata – decorsi i tempi previsti dalla legge – di portare a compimento la sua decisione.
Su questa stessa strada – accedendo dunque a un’evidente impostazione “dall’alto” – si collocano alcuni precisi comportamenti della Regione Lombardia. Si pensi (1) all’atto d’indirizzo (annullato dal Consiglio di Stato) che – procedendo ben oltre le competenze riconosciute alle regioni – stabiliva limiti all’aborto terapeutico più restrittivi di quelli indicati nelle Linee guida ministeriali; (2) imponeva – contra la legge n. 194 – l’intervento di due ginecologi (così evidentemente aumentando il potere interdittivo degli obiettori); (3) favoriva forme d’indebita pressione psicologica nei confronti delle donne intenzionate ad abortire, senza alcun rispetto per la loro privacy o il loro eventuale, legittimo desiderio di silenzio e solitudine (presenza di Associazioni di genitori di figli portatori di handicap nei centri di diagnosi prenatale); (4) con regolamento del gennaio 2008 s’impone inoltre il seppellimento dei feti abortiti sotto le venti settimane (previsione che è stata poi applicata in modo quanto meno solerte – per non dire aberrante – negli ospedali): si fomenta così l’idea che si sia posto in essere un assassinio; (5) nei moduli si rivela poi l’identità della donna contro la normativa attuale. Si pensi, inoltre (6) alla dichiarazione del Governatore, il quale affermò che mai avrebbe permesso di utilizzare la RU in regione: la solita conseguenza è stata quella dei viaggi italiani all’estero, nella specie verso il Canton Ticino.
Tutto ciò è però radicalmente contrario a quanto affermato dalla stessa Corte EDU nella sentenza Tysiac v. Poland, 20 marzo 2007, n. 5410/03: è essenziale predisporre una corretta procedura volta a tutelare la salute psico-fisica della donna che chiede di abortire, dovendosi evitare situazioni di “prolungata incertezza” e di “angoscia”. Prima o poi quanto avviene in Italia giungerà sino alla Corte di Strasburgo. A prezzo – però – di altre sofferenze.
Di contro, affrontare il problema dell’aborto clandestino “dal basso”, portandolo a emersione e avvicinando le donne in difficoltà ai sensi della legge n. 194, ha consentito di ridurre il danno e il ricorso effettivo all’aborto, laddove il proibizionismo ideologico e dall’alto non salvava né salverebbe di certo più vite (né dei feti né delle madri).
Come e quando morire. Ai sensi dell’art. 32, comma 2 (in combinato disposto con gli artt. 2 e 13): se il paziente è capace e consapevole ha il diritto non solo a modulare e discernere gli interventi a fini terapeutici sul suo corpo ma anche di rifiutare le curesino a provocare la propria morte. A questo conduce del resto il riconoscimento della salute anche come diritto di libertà individuale e del “consenso informato” quale <<vero e proprio diritto della persona>>, <<sintesi di due diritti fondamentali della persona, quello all’autodeterminazione e quello alla salute>> ex artt. 2, 13 e 32 Cost. (sentt. n. 282/2002, 338/2002, 438/2008 poi ribadita alla lettera nella sentenza n. 253/2009). Se per tutelare questo preciso diritto della persona è necessario che il consenso debba essere adeguatamente informato, è chiaro che, a seguito dell’informazione, il consenso stesso potrà essere rifiutato (anche in caso di interventi o terapie essenziali per la vita). Altrimenti non di consenso si tratterebbe bensì di un’imposizione informata.
Anche questo approdo è frutto di un ribaltamento suffragato dalla Costituzione: alla volontà del medico esterna al soggetto – un tempo sempre privilegiata (paternalismo medico) – prevale ora la volontà informata del paziente capace, debitamente consultato sulle vicende che riguardano il suo corpo, la sua salute, il suo futuro. Dal “paradigma ippocratico” al “paradigma bioetico” (M. Mori).
L’unico limite ricavabile ex art. 32 Cost. (come ha più volte precisato la Consulta): la legge può prevedere TSO solo ove siano in gioco concreti interessi altrui e comunque nel rispetto della persona del diretto interessato.
Quella del rifiuto dei trattamenti anche salvavita è dunque una scelta personalistica/pluralistica “dal basso”, lasciata alla decisione informata del capace d’intendere e di volere, contra chi (“dall’alto”) vorrebbe far prevalere anche in questi casi le volontà altrui (del medico, del legislatore, della Chiesa ecc.) sottraendo spazi di decisione al singolo “per il suo bene”. Ciò incide altresì sul “principio pluralista”: a una concezione che amplia le visioni del mondo regolabili dal diritto se ne contrappone infatti un’altra che ne restringe invece la portata.
Come sta insomma scritto nella sentenza che chiude il caso Welby, ai sensi dell’art. 32 Cost., il medico che assista il paziente in queste eventualità non dà quindi luogo né a un “omicidio del consenziente” né a un aiuto al suicidio (artt. 579 e 580 c.p.). La volontà del paziente priva cioè di doverosità i comportamenti del medico tesi a prolungargli la vita.
Nel caso Englaro abbiamo un ulteriore passo avanti su questa strada, mediante un’interpretazione adeguatrice delle norme disponibili meglio calibrata sulla specificità di tale vicenda (è – dunque – ancora la visione “dal basso” a prevalere). La Cassazione modula quindi i precedenti giurisprudenziali e stabilisce pertanto che, in situazioni di svp (ben diverse dalla vicenda Welby), per interrompere i trattamenti salvavita (i quali, in tali circostanze, possono consistere anche in semplici terapie antibiotiche), occorre verificare l’esistenza di taluni requisiti (inerenti alla singolare peculiarità di tale fattispecie):
1) occorre intanto accettare che il paziente versi davvero in uno stato vegetativo irreversibile, il quale, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, non lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza. Il linguaggio non è forse scientificamente preciso: i medici preferiscono ragionare di gradi diprobabilità..
2) vi devono inoltre essere comunque elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della volontà (diretta) del paziente medesimo d’interrompere l’idratazione e l’alimentazione artificiale salvavita, tratta pertanto da sue precedenti dichiarazioni (non necessariamente scritte)ovvero ricavata (in via indiretta) dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona». La Corte d’Appello di Milano ha poi effettuato sia l’accertamento diretto (dichiarazioni), sia l’accertamento indiretto (personalità) giungendo alla medesima conclusione.
Il principio di diritto elaborato nel caso Englaro è comunque anch’esso ricavato utilizzando appunto (e ancora) la Costituzione: l’art. 32 ma anche gli artt. 2 e 13 che ad esso si agganciano. Ed è frutto di un’attenta ponderazione della vicenda concreta sottoposta all’attenzione dei giudici.
La reazione “dall’alto”, però, anche qui non ha tardato a manifestarsi. Sono stati talmente tanti gli ostacoli gli ostacoli di natura politica e amministrativa frapposti alla concreta attuazione di quanto riconosciuto dalla Cassazione ai sensi della Costituzione, che non è neppure possibile elencarli tutti. Si pensi al conflitto tra poteri deciso a favore dei giudici, dalla Corte costituzionale mediante l’ord. n. 334/2008. Si pensi alla lettera del 16 dicembre 2008 (qualificata “atto d’indirizzo”) con la quale il “Ministro del lavoro, salute e politiche sociali” intimava ai Presidenti delle Regioni e delle Province autonome di agire affinché nessuna struttura pubblica e privata si rendesse disponibile a sospendere l’alimentazione/idratazione artificiale nei confronti dei pazienti in s.v.p. Ma come potrebbe, in uno Stato di diritto, una non meglio classificabile “lettera ministeriale” incidere sulla “cosa giudicata”? Non sorprese quindi che, reperita finalmente una clinica disponibile a ospitare la ragazza, lo stesso Ministro, in un’intervista rilasciata a Bruxelles, paventasse «conseguenze immaginabili» nei confronti delle strutture che non avessero rispettato il suo fantomatico “atto d’indirizzo”. Temendo ritorsioni, la clinica – con un comunicato ufficiale – ritenne quindi opportuno ritornare sui suoi passi. Ancor prima, peraltro, numerosi hospices resisi disponibili a ospitare la ragazza revocarono le loro offerte.
Ad un’analoga strategia d’attacco risulta peraltro ascrivibile anche la reazione messa in campo dalla Regione Lombardia. A fronte della diffida del tutore di Eluana Englaro, affinché venisse indicata la struttura sanitaria entro cui dare seguito a quanto autorizzato dalla pronuncia della Corte d’Appello, la Direzione generale della Sanità regionale reagiva con un netto rifiuto, cui si aggiungeva la palese minaccia di sanzioni disciplinari rivolta ai medici che avessero eventualmente assecondato la richiesta del tutore1. Interpellato dallo stesso tutore, il T.A.R. Lombardia annullava però il provvedimento regionale con una motivazione «nettissima» e sferzante. Il T.A.R. affermava perciò che «rifiutare il ricovero ospedaliero… a chiunque sia affetto da patologie mediche, solo per il fatto che il malato abbia preannunciato la propria intenzione di avvalersi del suo diritto alla interruzione del trattamento, significa di fatto limitare indebitamente tale diritto. L’accettazione presso la struttura sanitaria pubblica non può infatti essere condizionata alla rinuncia del malato ad esercitare un suo diritto fondamentale». Da qui l’ordine all’Amministrazione d’indicare la struttura sanitaria idonea ad affrontare il caso clinico, «onde evitare alla ammalata (ovvero al tutore e curatore di lei) di indagare in prima persona quale struttura sanitaria sia meglio equipaggiata al riguardo».
Da ultimo, si pensi al c.d. d.d.l. Calabrò – diretto effetto di quella vicenda – al quale è stata impressa, nelle ultime settimane, un’incongrua accelerazione (le elezioni evidentemente si avvicinano!). Un d.d.dl che mira (ideologicamente e “dall’alto”) a ridurre drasticamente gli spazi di decisione del singolo in tema di fine-vita; e ciò a prescindere dalle sue volontà comunque supportabili dalla Costituzione e non incidenti sulle sfere volitive altrui.
Da ultimo ho lasciato la legge n. 40/2004. E’ infatti il sintomo di ciò che potrebbe pur sempre accadere anche in altri luoghi del sistema, ove prevalesse l’approccio dall’alto.
IN SINTESI: la legge realizza l’assolutizzazione di una serie di principi astratti, imposti a prescindere dalle conseguenze delle sue applicazioni pratiche.
No assoluto alla ricerca: anche sugli embrioni c.d. soprannumerari ormai biologicamente impossibilitati ad attecchire in utero e svilupparsi. E’ un durissimo attacco alla libertà di ricerca scientifica: non si pongono infatti limiti ragionevoli alla stessa ma si vieta tutto. L’incongruità del divieto deriva del resto da un altro aspetto: con questa prescrizione si sacrifica una ricerca potenzialmente rivoluzionaria senza tutelare affatto gli embrioni comunque destinati a non essere impiantati, a deperire e morire. Questa è una palese irragionevolezza: secondo la stessa logica dovrebbero infatti essere vietati anche i trapianti a cuore battente.
A ciò si aggiungono i problemi posti dalla sentenza della Corte di giustizia sul caso Brustle, che ha sancito il divieto di brevettabilità delle scoperte derivanti dall’utilizzazione di embrioni.
Un ordine familiare da proteggere: il divieto di fecondazione eterologa. Sulla quale la Corte sarà presto chiamata nuovamente a esprimersi nel merito, dopo la sua pronuncia processuale di restituzione degli atti della relativa quaestio (ord. n. 150/2012, che richiama la sentenza Cedu, Grand Chambre, la quale ha ribaltato la precedente decisione della prima sezione: segno che il “braccio di ferro” vigente in Italia abita anche presso altre istituzioni sovranazionali).
Divieto di diagnosi preimpianto a fronte della possibilità di procedere a diagnosi prenatali. Una sorta di obbligo di decidere alla cieca.
Palese incostituzionalità testuale del suggerito obbligo d’impianto e della fissazione del numero massimo di tre embrioni fecondabili, a prescindere dalle concrete situazioni di sterilità o di fisiologia cui occorre reagire.
Comunque – e gradatamente – l’ordinamento (con i tempi, i costi e le sofferenze propri della legalità) si assesta e aggredisce passo passo le singole previsioni di legge. Le norme costituzionali vengono insomma “messe in moto”. La giurisprudenza adotta un’interpretazione adeguatrice che ammette la diagnosi preimpianto. Le nuove linee guida del 2008 aprono alla diagnosi preimpianto anche ai non sterili in quanto affetti da malattie virali trasmissibili alla prole e al partner (la reazione di Formigoni – 1° maggio 2008-: queste linee guida non verranno rispettate; il tentativo di sostituirle con altre linee guida, di ben diversa impronta, l’ultimo giorno di esistenza del governo Berlusconi è sinora fallito). Finanche: la p.m.a. e la diagnosi preimpianto consentita anche ai non sterili se afflitti da malattie genetiche (Tribunale di Salerno, sez. I, 9 gennaio 2009, giudice Scarpa). E ora ammessa anche dalla Corte EDU, sez. II, 28 agosto 2012, Costa e Pavan c. Italia. Fino alla vera svolta ordinamentale: la sentenza n. 151/2009 della Corte costituzionale sull’illegittimità dell’obbligo dell’unico e contemporaneo impianto dei massimo tre embrioni fecondati e sul divieto di crioconservazione: una scelta che non teneva conto (ponendosi in una prospettiva “dall’alto”) delle diverse patologie riproduttive cui può essere affetta una donna e una coppia, delle stessa caratteristiche fisiologiche della paziente, della necessità – dunque – di calibrare le soluzioni caso per caso con l’assistenza di un medico (e non sotto l’imperio di una legge lontana e inflessibile). E’ un richiamo alla necessità dell’individualizzazione dei trattamenti; è ancora una “delega di bilanciamento in concreto”.
Ma vorrei chiudere con un altro esempio di ostinato accoglimento del modello proibizionista (nonostante i suoi evidenti e protratti insuccessi). Il caso del consumo di sostanze stupefacenti (R. Perrone).In realtà, se esiste il diritto a usare del proprio corpo, quale addentellato della libertà personale, nonché il diritto di ammalarsi e non curarsi (estrapolato dall’art. 32, comma 2, Cost.), non è affatto illegittimo ragionare o prevedere la facoltà di usare sostanze stupefacenti sia (va da sé) per curarsi (come comincia ad ammettere qualche voce giurisprudenziale: Tribunale di Avezzano, ord. 2 febbraio 2010), sia per ragioni squisitamente ludiche. Un diritto che dovrebbe – come tutti i diritti e come tutte le attività ludiche o meno – ammettere peraltro specifici limiti al suo esercizio: limiti che dovrebbero quindi evitare pericoli per soggetti diversi dall’assuntore, costi per la collettività o l’impossibilità di adempiere ai doveri inderogabili richiamati all’art. 2 Cost. Limiti che potrebbero altresì impedire che l’esercizio della libertà da parte del singolo si traduca nella sola libertà di non esserlo (J. Stuart Mill). Vietare cioè che l’assuntore si trasformi in tossicodipendente, nel senso estremo d’impedire che l’assuntore diventi incapace di determinarsi liberamente (tutti siamo invece più o meno dipendenti da qualcosa in un senso più lato). Solo in tal modo diverrebbe, del resto, ragionevole l’attuale (ben diversa) disciplina riservata agli alcoolici e al tabacco. Anche queste sono conseguenze che deriverebbero da una prospettiva “dal basso”; un approccio non ideologico, non assolutista, non paternalista e non proibizionista.
Altre situazioni cui estendere il punto di vista proposto: matrimonio omosessuale, eutanasia, sperimentazione animale, situazione dei disabili, funzione rieducativa della pena ex art. 27 Cost. ecc.
Quale filo rosso dunque regge il percorso dal basso sin qui delineato: concepire un personalismo non separato dalla persona concreta e capace che ne risulta coinvolta, ampliando gli spazi d’azione per il pieno dispiegarsi del principio pluralista.
Adozione – perciò – di un modello permissivo e non impositivo. Un approdo che è perseguibile adottando quelle che un cattolico democratico come Leopoldo Elia definiva “leggi facoltizzanti”. Al più, lo Stato potrà intervenire per sensibilizzare gli individui sull’importanza dei vari temi, per porre in essere una <<strategia della persuasione>> non arrogante o invasiva (così la Cassazione nel caso Englaro), per creare le condizioni ottimali affinché siano assunte decisioni pienamente consapevoli da parte dei diretti interessati e assicurarsi che ciò sia avvenuto. Nulla di più.
Nell’attesa che il legislatore rinsavisca, vi è dunque la necessità di continuare sulla strada della legalità, proponendo nuove interpretazioni del dato legislativo (utilizzando al massimo le coordinate costituzionali), ricorrendo ai giudici, pensando e creando “casi pilota”, arrivando alla Corte costituzionale e alla Corte EDU.
Mai dimenticando – “dal basso” – i sacrifici e le sofferenze delle persone coinvolte e che stanno all’interno di ciascuna di queste traiettorie.
Se quanto precede è vero, è quindi la nostra stessa Costituzione che c’insegna a distinguere tra l’ethos individuale (da ciascuno perseguito in funzione della propria fioritura), e l’etica, ossia <<quello che è dovuto da ciascuno a tutti>>, che è poi lo stesso diritto, che si chiede per sé, di vivere, fiorire e affrontare la morte o altre situazioni secondo le proprie più radicate convinzioni (R. De Monticelli).
E’ chiaro che nell’optare tra un simile atteggiamento personalista e pluralista (“dal basso”) e il suo contrario un’offesa all’altro modo di pensare pur sempre c’è. Tuttavia (C. Tripodina) è assolutamente diversa l’offesa che subisce chi vive in un ordinamento che fa suoi principi che egli non condivide, ma senza conseguenze dirette sul suo corpo e sui convincimenti più intimi, dall’offesa che subisce chi vive in un ordinamento che fa suoi valori che egli non condivide, e da ciò fa discendere conseguenze dirette sul suo corpo e le sue scelte più profonde. Tra queste alternative – se è vero ciò che sin qui detto – la nostra Costituzione (per chi la vuol prendere sul serio) un’opzione precisa l’ha adottata. E non è affatto muta, o, peggio, “matrigna” come qualcuno vorrebbe farci credere.
1 Ciò avveniva il 3 settembre 2008.V., più precisamente, Amedeo Santosuosso, “Sulla conclusione del caso Englaro”, op. cit., pp. 132-133.
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