Carceri e coronavirus: ecco com’è la situazione italiana

carceri e coronavirus diritti dei detenuti

a cura di Lucrezia Fortuna, dottoressa in Giurisprudenza

— La situazione nelle carceri —

I detenuti nelle carceri italiane, stando ai dati riportati dal Ministro Bonafede in occasione del Question Time alla Camera, sono passati nelle prime tre settimane di marzo da 61.235 a 58.592; ciò a fronte di una capienza regolamentare, è bene ricordare, di 50.931 unità: ciò significa, per esempio, che nella casa circondariale di Roma “Rebibbia Nuovo Complesso – R. Cinotti”, si trovavano ristrette al 29 febbraio 2020 1.637 persone, ben 477 in più delle 1.160 consentite.

Questo dato, già di per sé emergenziale, deve oggi essere letto alla luce dell’emergenza sanitaria in atto. Per farlo, occorrerà mettere da parte il secolare e mai risolto dibattito intorno a quale, tra le molteplici finalità cui la pena può astrattamente tendere, debba darsi priorità nella prassi applicativa: quella retributiva o rieducativa? Ebbene, come pure non sembrano aver compreso i deputati che il 25 marzo davano sfoggio dai banchi di Montecitorio, non è a simili dibattiti che bisogna dare priorità: il punto è rispondere al nodo del sovraffollamento carcerario in piena pandemia.

Ciò perché la risposta ai dissidi di cui sopra potrà essere data solo attraverso una riforma organica – già di fatto posticipata ben prima che il virus facesse ingresso nel nostro paese; solo attraverso interventi che tengano realmente conto delle pure numerose proposte che esperti, e non demagoghi, hanno infruttuosamente sottoposto al legislatore, e soprattutto, delle evidenze che altri paesi ci offrono in materia di accesso alle misure alternative, strumenti finanziari e percentuali di abbattimento della recidiva. Concentrarsi sul sovraffollamento ha peraltro il vantaggio di destare l’attenzione tanto di chi si batte perché la pena tenda effettivamente a quella rieducazione cui pure la Costituzione preordina il trattamento detentivo, tanto di chi invece protesta contro l’inefficace macchina della Giustizia italiana. Sempre che, mi si perdoni il gioco di parole, si parta in buona fede. Premessa non così scontata se si considera la solita litania degli spacciatori fuori le scuole che è tornata alla ribalta nonostante le scuole siano, ricordiamolo per chi non se ne fosse reso conto, al momento chiuse.

Nella situazione attuale, infatti, entrambe le suddette esigenze di giustizia non possono che essere frustrate. Il distanziamento sociale e l’isolamento fisico, come ha ricordato anche l’alto commissario Onu per i diritti umani Michelle Bachelet, è, in simili condizioni, praticamente impossibile. C’è una profonda differenza tra svuotare le carceri e tutelare la salute e la sicurezza di chi vi si trova, ed è in questa differenza che bisogna trovare il necessario bilanciamento tra le contrapposte visioni. Solo quindi unendo le forze e rinviando ad un momento successivo l’elaborazione di una proposta di intervento globale e sistematico sui diritti (e doveri) dei detenuti, è possibile rispondere all’emergenza che le rivolte di inizio marzo hanno tragicamente anticipato. Non solo: è bene ricordare che accanto ai detenuti, che a causa delle condizioni cui sono costretti sono i primi a rischiare la propria salute – fisica e mentale -, ci sono coloro che nel carcere prestano il proprio lavoro: gli agenti di polizia penitenziaria, in primis. Un detenuto del carcere di Bologna è deceduto e sono già due gli agenti che hanno perso la vita a causa dell’infezione da Covid-19. Ad oggi, i positivi  sono 21 tra i  detenuti e 120 tra gli agenti.

A imporre il nuovo ordine di priorità è giunta da ultima la raccomandazione del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT). L’organo del Consiglio d’Europa il 20 marzo ha infatti emesso un documento, sia pure non vincolante, con il quale pone un elenco di principi cui le autorità competenti di ciascuno Stato dovrebbero improntare la propria azione. Tra questi, particolarmente stringente è il ricorso a misure alternative alla privazione della libertà personale. Ricorso che la gravità della situazione rende dovere, non già facoltà, in situazioni di sovraffollamento carcerario, come di fatto è quella italiana. Situazione per la quale l’Italia è stata condannata dalla stessa Corte europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza Torreggiani dell’8 gennaio 2013 -decisione presa all’unanimità –, nella quale i giudici di Strasburgo hanno riscontrato la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani.

— Cosa è stato fatto —

Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, rispondendo al Question Time alla Camera, ha illustrato le iniziative intraprese. Dopo aver illustrato i numeri di cui sopra, ha affermato che sono, al momento, solo 200 i detenuti che hanno lasciato il carcere in forza delle previsioni di cui all’articolo 123 e 124 del Decreto Cura Italia. Per i 21 detenuti positivi la procedura prevista è l’isolamento in istituto ovvero il ricovero in ospedale. “Svuota carceri” lo hanno chiamato. A ben vedere non è così. Non è sufficiente il soffrire di una patologia pregressa. Non è sufficiente, e forse questo è l’aspetto più problematico, il non aver subito ancora condanna alcuna: anche chi è in attesa di giudizio al momento rimane in carcere, sebbene formalmente ancora presunto innocente. Non si comprende come, se la legge prevede la detenzione quale estrema ratio, ciò non appaia ancora più vero in un momento come questo, in cui il rischio di implosione è altissimo: sarebbe opportuno quindi procedere al rilascio di coloro che si trovano in custodia cautelare per reati minori e non violenti. Al rilascio dei detenuti più anziani e di coloro che hanno una situazione clinica che li rende più vulnerabili. Il bilanciamento tra pretesa punitiva e tutela della salute dei detenuti avrà nella valutazione della concreta pericolosità sociale il proprio contrappeso.

Di fatto chi poteva uscire è già uscito. Già prima dell’entrata in vigore del provvedimento infatti la normativa prevedeva per coloro che dovevano espiare una pena, anche residua, alla reclusione inferiore ai 18 mesi la possibilità di fruire della sua esecuzione presso il domicilio. Un punto fondamentale, questo. Chi esce, non va “fuori le scuole”, va a casa. Casa la cui idoneità è una delle precondizioni per accedere al beneficio di cui al Decreto Cura Italia, il quale, rispetto alla normativa precedentemente vigente, prevede una procedura più semplice ai fini dell’ottenimento della misura.

L’art.123 prevede che: 

Ai fini dell’applicazione delle pene detentive di cui al comma 1, la direzione dell’istituto penitenziario può omettere la relazione prevista dall’art. 1, comma 4, legge 26 novembre 2010, n. 199. La direzione è in ogni caso tenuta ad attestare che la pena da eseguire non sia superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, che non sussistono le preclusioni di cui al comma 1 e che il condannato abbia fornito l’espresso consenso alla attivazione delle procedure di controllo, nonché a trasmettere il verbale di accertamento dell’idoneità del domicilio, redatto in via prioritaria dalla polizia penitenziaria o, se il condannato è sottoposto ad un programma di recupero o intende sottoporsi ad esso, la documentazione di cui all’articolo 94, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni”.

Non possono accedere alla misura coloro che si sono macchiati di determinati reati o talune categorie di condannati. Per esempio sono esclusi i soggetti condannati per i cosiddetti reati “ostativi”, per maltrattamenti in famiglia oppure per atti persecutori. Escluso anche chi nell’ultimo anno abbia commesso talune infrazioni disciplinari e chi è risultato coinvolto nei disordini e nelle sommosse che hanno avuto luogo dal 7 marzo. Il successivo articolo 124 dispone infine una disciplina speciale per le licenze concesse al condannato ammesso al regime di semilibertà, che possono essere prorogate sino al 30 giugno 2020.

Le previsioni di cui al decreto legge n.18 del 17 marzo 2020 sono state infine integrate da una circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del 20 marzo, recante indicazioni ulteriori per la prevenzione del contagio da coronavirus. Un dato interessante è quello relativo ai dispositivi di protezione personale. Nel documento si legge infatti dello sforzo di collaborazione con la Protezione Civile e l’Istituto Superiore di Sanità “al fine di agevolare al massimo la produzione delle mascherine negli istituti penitenziari, utilizzando il lavoro dei detenuti che, in questo momento particolare, possono avere anche occasioni di autosostentamento”. Così nelle scorse settimane, negli istituti dotati di un laboratorio di sartoria, si è proceduto alla riconversione e quindi al confezionamento di mascherine che saranno poi distribuite sia dentro che fuori dal carcere.

Preme sottolineare un ultimo aspetto. Sebbene la priorità, almeno a livello normativo, debba essere quella di dare una risposta decisa sulle misure attivate e da attivare di fronte all’emergenza sanitaria che rischia di scoppiare nelle carceri italiane, “sovraffollate e non dignitose”, come sottolineato dal Presidente Sergio Mattarella, non si può trascurare la grande limitazione imposta ai diritti dei detenuti con le restrizioni sui contatti per e con i parenti – sia pure per limitare il rischio di contagi. Pur nella sospensione di colloqui e visite disposta dal Governo in via cautelativa, mantenere e coltivare i rapporti affettivi rimane uno degli elementi  fondamentali del trattamento rieducativo, come riconosciuto dalla stessa legge. Diviene quindi importante assicurarne la continuità mediante l’implementazione delle modalità di attuazione a distanza dei colloqui, attraverso Skype e la fornitura di telefoni cellulari – al 25 marzo erano stati consegnati 1600 cellulari, e altri 1600 erano in procinto di essere distribuiti.

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