Autodeterminazione terapeutica e questioni di fine vita. Intervento al IX Congresso Coscioni

avv. Gianni Baldini

 

  1.      Premessa: la necessità di regole certe per il ‘fine vita’

E’ un paese davvero strano l’Italia se su questioni così delicate e centrali che involgono il rapporto tra medicina etica e diritti fondamentali della persona ovvero un aspetto decisivo sul quale sempre più si giocherà la partita sull’assetto culturale, politico, economico e democratico delle nostre società c.d. avanzate, invece di adottare scelte largamente condivise sul piano interno e in linea con quanto vigente a livello europeo e nella comunità internazionale, assume posizioni ideologiche espressione di orientamenti etici, oggi peraltro divenuti minoritari, che invocano lo strumento della legge per imporre la propria ‘tavola’ di valori e principi evidentemente divenuta ‘debole’ e quindi non più applicabile con la ‘persuasione’ ma bisognosa della ‘coercizione’[1]. Infatti è oltremodo evidente che un’etica forte non ha bisogno del diritto, è quando diviene debole che necessità della norma giuridica per essere applicata. Ma fatto ancora più sorprendente è che dopo essersi spinta la ‘discrezionalità del legislatore’ oltre i limiti costituzionalmente consentiti (art. 32 2° comma) cioè invadendo sfere intangibili della persona umana –la libertà sul proprio corpo, la dignità della persona, la libertà di cura, l’autonomia e la responsabilità del medico definita nel  quadro della c.d. alleanza terapeutica col paziente- come recentemente ricordato dalla sentenza della Corte Costituzionale sulla PMA n 151/09 che ha riscritto l’art. 14 della legge 40/04, questo improvvido legislatore giunge infine a contraddirre se stesso assumendo posizioni inconciliabili e antinomiche su questioni che attengono il rapporto tra vita e impiego delle tecnologie biomediche ovvero su quale debba essere il ‘limite’ delle seconde rispetto alla possibilità di intervenire sulla prima. L’esempio paradigmatico è costituito dalle due normative che si propongono di disciplinare i fenomeni speculari ma collegati dell’inizio e della fine della vita umana. Se con la legge 40/04 recante norme in materia di procreazione medicalmente assistita a tutela dell’embrione elevato al rango di soggetto di diritto si è inteso limitare al massimo l’accesso alle tecniche riducendo parimenti l’efficacia e l’efficienza delle medesime sul presupposto che la vita umana è un ‘dono divino’, qualcosa di intangibile, non manipolabile, innanzi alla quale la scienza deve arrestarsi anche quanto vi sia la presenza, come in questo caso,  di una patologia che non rende possibile la procreazione per via naturale, sul versante opposto della fine della vita si assiste al tentativo di imporre delle regole che renderebbero obbligatorio l’utilizzo di ausili tecnico-medici estremamente invasivi  -nutrizione e idratazione artificiale eseguite attraverso un sodino nasogastrico- pur di impedire che il processo biologico evolva secondo il suo iter naturale, anche nel caso in cui non sussista alcuna possibilità, medicalmente accertata, di recupero del paziente.

Siamo davanti ad una schizofrenia talmente evidente da non meritare ulteriore commento. Come può giustificarsi questa valutazione e impiego asimettrico e antinomico di ciò che lo sviluppo biomedico oggi consente?

 

2. Le esigenze di regolamentazione delle vicende di ‘fine vita’

La riflessione sul c.d. testamento biologico o dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT) non può che nascere da qui: l’avanzamento tecnologico ha reso incerto il confine tra la vita e la morte, consente di protrarre a tempo indefinito il momento della morte ‘organica’ (con ogni implicazione sulla ‘morte giuridica’ del soggetto fissato dalla legge 29 dicembre 1993 n. 578 (così come integrata dalla L. 1 aprile 1999 n. 91 per l’ipotesi di espianto di organi) nella cessazione definitiva e irreversibile di tutte le attività dell’encefalo. Sostituendo gli ausili biomedici alcune funzionalità corporee fondamentali –la respirazione, la nutrizione, l’idratazione- naturalmente, definitivamente compromesse, si interrompe il corso naturale degli eventi  e pur senza invertirlo si determina una situazione di quiescenza nella quale il soggetto si trova sospeso tra la vita e la morte …a tempo indeterminato. In tal senso gli stati vegetativi persistenti costituiscono l’esempio più evidente del limite estremo cui si è giunti[2].

Diviene dunque assolutamente centrale il problema di ‘chi’ debba decidere, sul ‘se’, ‘come’ e ‘quando’ ricorrendone le circostanze, il medico debba o meno procedere, superato il doveroso intervento cui è tenuto nell’immediatezza e urgenza del caso concreto, all’impiego di tali ausili tecnologici. Quale il valore e l’operatività che in tal ambito deve essere riconosciuta ai principi di libertà terapeutica, autodeterminazione e consenso informato?

In altri termini: a chi spetta il potere di decidere: allo Stato, al prossimo congiunto o al diretto interessato?

 

3.Gli ‘strumenti’ presenti nell’ordinamento per consentire ‘l’autodeterminazione terapeutica’.

Le dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT) non sono altro che una manifestazione libera e consapevole della persona in stato di piena capacità di intendere e volere che dichiara per iscritto la propria volontà su quale debba essere il trattamento medico cui essere sottoposta – con particolare riguardo all’utilizzo di ausili tecnologici per consentire artificialmente la respirazione e/o la nutrizione e/o l’idratazione naturalmente non più permesse dal proprio organismo, cui possono aggiungersi pure disposizione in ordine all’eventuale espianto dei propri organi- nell’ipotesi si trovi in condizioni di impossibilità di manifestare coscientemente tale volontà. E’ di ogni evidenza che si tratta di una modalità di esercizio del diritto alla liberta personale ex art. 13 cost e della libertà di cura ex art. 32 2° comma cost.

Pur in assenza di una legge sul testamento biologico il nostro ordinamento anche per effetto di recenti interventi normativi e giurisprudenziali, offre strumenti che consentono al soggetto, in previsione di un futuro stato di incapacità di intendere e volere,  di autodeterminarsi ‘ora per allora’ con riguardo ai trattamenti sanitari cui lo stesso chiede di essere/non essere sottoposto.

1)Dichiarazione anticipata di trattamento (D.A.T. o c.d. Testamento biologico):

Si tratta di negozi unilaterali a contenuto personale, analoghi al testamento mortis causa da cui si differenziano: a) sotto il profilo operativo, perché non la morte ma lo stato di sopraggiunta incapacità di intendere e volere in presenza di patologia irreversibile, costituisce il fatto naturalistico giuridicamente rilevante a partire dal quale il negozio produrrà i propri effetti; b) quanto ai contenuti, perché tali dichiarazioni avranno solo lo scopo di fornire indicazioni (vincolanti) con esclusivo riguardo ai trattamenti sanitari cui il soggetto che si trovi nelle condizioni sopra descritte vorrà/non vorrà essere sottoposto.

Secondo le regole generali in materia, affinchè l’atto destinato a produrre effetti in futuro  sia valido ed efficace sarà necessaria la firma autografa dell’interessato e la data certa. La presenza di eventuali testimoni al momento della sottoscrizione ovvero di un pubblico ufficiale (Notaio o Ufficiale dello stato civile) che attesti l‘autenticità della stessa non costituiscono condizioni di validità dell’atto quanto elementi che ne rendono non impugnabile il contenuto sotto il profilo della effettiva rispondenza di quanto scritto alla volontà liberamente e consapevolmente espressa dal soggetto in condizione di piena capacità. Così pure la presenza di un fiduciario chiamato a dare esecuzione a quelle dichiarazione ovvero a consentire una interpretazione il più possibile aderente alle reali intenzioni del dichiarante anche nel senso di garantire l’attualità, non costituisce requisito di validità dell’atto configurandosi come elemento diretto ad assicurarne il funzionamento in condizioni di massima efficacia ed efficienza.

Diverse decine di migliaia sono i cittadini italiani che hanno sottoscritto innanzi a un notaio ovvero consegnato a un fiduciario il proprio testamento biologico. Alcuni Comuni hanno poi istituito i Registri dei testamenti biologici. Si tratta di pubblici registri dove vengono annotate le generalità del soggetto (e del fiduciario) che ha redatto il T.B. ovvero presso i quali è possibile, oltre all’annotazione, procedere al deposito dell’atto[3]

 

2)Amministrazione di sostegno:

le disposizioni dettate a protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia di cui agli artt 404-413 c.c. prevedono la possibilità, mediante ricorso al Tribunale, di nominare un amministratore di sostegno in previsione di una futura incapacità [4]. Come espressamente previsto dall’art. 408 c.c. l’amministratore potrà essere nominato anche ‘ora per allora’: “L’amministratore di sostegno può essere designato dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata”. In tal senso il Giudice col decreto che nomina l’amministratore di sostegno, recependo quanto richiesto dal ricorrente (contenuto nell’atto pubblico o nella scrittura privata autenticata redatta innanzi al Notaio e allagata al ricorso)[5] precisa il contenuto dell’attività che l’amministratore dovrà svolgere nell’interesse dell’amministrato ivi compresa l’autorizzazione ad esprimere anche i richiesti consensi necessari ai trattamenti medici[6]. Si tratterebbe dunque di una sorta di autorizzazione (anticipata) conferita dal Giudice all’amministratore (destinata a valere in futuro, ricorrendo determinate condizioni) di esercitare l’attività di tutela e assistenza nell’interesse dell’amministrato secondo le direttive  e le indicazioni contenute nel provvedimento in recepimento delle dichiarazioni di volontà dello stesso.

4. Il fondamento normativo interno e internazionale delle DAT

Pur in assenza di una legge che regolamenti la materia la possibilità di esprimere con una dichiarazione unilaterale di volontà che presenti le caratteristiche sopra viste, delle direttive anticipate di trattamento valide ed efficaci per i terzi (in primis medico e stretti congiunti) trova il proprio fondamento in principi e regole generali e speciali dell’ordinamento interno e internazionale[7].

Segnatamente al sistema giuridico nazionale l’indagine non può che prendere avvio dalla lettura della Carta costituzionale che contiene le norme più significative sul punto: art. 2, clausola aperta che tutela e promuove i diritti fondamentali della persona umana, la sua identità e dignità; art. 13 disposizione che afferma l’inviolabilità della libertà personale, nella quale “è postulata la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo[8];  art. 32 cost. a ragione ritenuto sia in  dottrina che in  giurisprudenza come norma fondamentale di garanzia in tema di libertà e autodeterminazione terapeutica del soggetto: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

 Se col primo capoverso si afferma senza possibilità di equivoco alcuno, che fuori dalle ipotesi di trattamenti sanitari obbligatori (cioè previsti per legge a tutela della salute del soggetto incapace ovvero della collettività) la volontà del soggetto, rectius il consenso informato di questi, costituisce la condizione legittimante per qualsiasi trattamento sul proprio corpo, col secondo viene sancita una sorta di clausola di habes corpus in forza della quale tale limite opera anche per il legislatore la cui discrezionalità trova un limite e si arresta dinanzi alle preminenti esigenze di tutela della dignità umana[9].

Tra le numerose disposizione di legge ordinaria che dettano disposizioni in materia di rapporto medico paziente nello specifico ambito che sono chiamate a disciplinare, specifica menzione merita la L. 833/78 istitutiva del SSN la quale nell’affermare all’art. 1 che “La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana” precisa all’art. 33 il carattere di norma volontario degli accertamenti e dei trattamenti sanitari.

A livello internazionale si ricorda la Convenzione di Oviedo[10]  la quale all’art. 5 che “ Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato il consenso libero e informato” e all’art. 9 che : “ I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione

Significativo pure l’espresso riferimento contenuto nella c.d. Carta di Nizza [11] la quale all’art. 3 prevede che “Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: il consenso libero e informato della persona interessata…”.

A tal fine si osserva come pure le fonti secondarie dettano principi molto importanti in tema di libertà terapeutica e valore del consenso informato: a titolo di esempio si ricordano l’art. 35 e 38  del Codice Deontologico medico[12]

Particolarmente significativo in questo ambito è stato il contributo offerto dalla Giurisprudenza. Sulle questioni inerenti il consenso informato, in assenza di una legge che disciplini in maniera organica il fenomeno, la Corte costituzionale con una serie di pronunce ha, nei fatti, compiutamente regolato il fenomeno statuendo, conclusivamente che il consenso informato costituisce la sintesi tra due diritti fondamentali quali salute  e autodeterminazione[13].

 Con specifico riguardo al tema che qui interessa, una pietra miliare che ha contribuito a fare chiarezza tra i differenti orientamenti e le oscillanti pronunce delle corti di merito è sicuramente costituita dalla sentenza della Corte di Cassazione  n. 21748/2007 che ha definitivamente pronunciato sul caso di Eluana Englaro ponendo ‘principi di diritto’ che vincolano tutti i Giudici di merito. La corte di legittimità, nel richiamare la propria precedente giurisprudenza stabilisce le condizioni in presenza delle quali la volontà del soggetto, sia documentata che ricavabile, come nel caso Englaro, da altri elementi di prova (testimoni): irreversibilità medicalmente accertata dello stato vegetativo e volontà del paziente accertata [14].

Puntuali e del tutto condivisibili pure le conclusioni riguardo all’operatività del principio del consenso informato quale condizione di legittimità, in tutti i casi, del trattamento medico in quanto strumento essenziale per l’autodeterminazione terapeutica[15].

 

 5. Le argomentazioni e le contraddizioni del D.L. Calabrò.

Alla luce di quanto precede, gli argomenti adotti da chi, contro ogni evidenza, in nome di un non meglio precisato ‘valore personalistico’ continua a ritenere esistente nell’ordinamento un ‘super principio’ in forza del quale il diritto alla vita e alla salute sarebbero diritti irrinunciabili ed indisponibili anche da parte del diretto interessato, sono destinati a rimanere mere affermazioni di principio, frutto di un orientamento etico definito, prive di fondamento normativo. Ne consegue che imporre per legge un trattamento sanitario a prescindere ovvero anche contro la volontà del paziente (come previsto dal Disegno di legge Calabrò in discussione in Parlamento per la nutrizione e l’idratazione artificiale), costituirebbe un atto di puro arbitrio dai risvolti estremamente pericolosi con specifico riguardo ai fondamentali diritti della persona. Innanzitutto perché, come appena visto, se il consenso informato, oggi elevato al rango di diritto fondamentale della persona in quanto sintesi tra diritto alla salute (art. 32 cost) e libertà personale (art. 13 cost) , costituisce il presupposto per la liceità di qualsiasi trattamento  sanitario  ne discende che non può essere attribuito al medico un generale ‘diritto di curare’ a fronte del quale non assumerebbe alcun rilievo la volontà del paziente che si troverebbe nella condizione di titolare del correlativo ‘dovere’ di curarsi. Ex adverso si osserva che il consenso informato esprime la facoltà del paziente non solo di scegliere tra differenti trattamenti medici ma anche, eventualmente, di rifiutare la terapia ovvero di decidere consapevolmente di interromperla in qualsiasi fase.

Sul punto se è vero che in nessun caso sarebbe possibile impedire al soggetto pienamente capace di intendere e volere, affetto da patologia grave che lo condurrà , in assenza di trattamenti, rapidamente, alla morte (si pensi al cancro, alla insufficienza renale, etc) di scegliere di non sottoporsi ovvero interrompere il trattamento medico, non si comprende come una tale possibilità dovrebbe essere negata al soggetto incapace di intendere e volere che in tal senso abbia precedentemente manifestato la sua volontà (ed è il caso di Eluana Englaro) ovvero, addirittura, al soggetto che pur pienamente capace di intendere e volere non dispone dell’autonomia corporea per sottrarsi ‘materialmente’ all’esecuzione del trattamento (ed è il caso di Piergiorgio Welby). A nostro avviso proprio il principio personalistico che permea di sè la nostra Carta costituzionale, in forza del quale la persona umana è un valore in sè e per sè -con la conseguenza che essa deve essere sempre considerata un fine e mai un mezzo-,  porta a ritenere che l’intervento solidaristico e sociale è pur sempre in funzione dello sviluppo della persona e mai viceversa. Ne consegue che la salute non potrà mai essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva. Come tutti i diritti di libertà il diritto alla salute individuale accanto al proprio contenuto ‘positivo’: diritto alla cura, al trattamento più appropriato, etc, contemplerà pure un risvolto ‘negativo’: diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo le proprie convinzioni morali e religiose e la propria percezione di dignità della vita[16]. Elemento essenziale perché ciò sia lecito e ammissibili è che il soggetto sia libero e consapevole della propria scelta.

Difronte al rifiuto alla cura dell’interessato, nell’ambito dell’operare dei principi su cui si fonda ‘l’alleanza terapeutica’ medico-paziente ci sarà spazio semmai “per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza : e c’è prima ancora il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorchè il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico[17].

Altrettanto strumentale è la confusione che da più parti si è tentato di fare tra  rifiuto delle terapie ed eutanasia. Si tratta di situazione ontologicamente diverse. Nel primo caso si tratta di rispettare il principio di inviolabilità del corpo che si traduce nel diritto all’integrità psico-fisica e nella pretesa del soggetto di non subire trattamenti invasivi in assenza di cause di giustificazione legalmente riconosciute (situazioni di emergenza nelle quali il consenso non può essere assunto, pericoli per la collettività). Dunque la decisione di curarsi come quella di non curarsi sono le due facce speculari di un medesimo diritto inviolabile e personalissimo che neppure il legislatore può comprimere. Nella seconda ipotesi si tratterebbe di riconoscere un diritto del malato (terminale), in condizione date, di pretendere dal terzo (il medico) la somministrazione di sostanze antidolorifiche (cure palliative) con l’effetto accessorio di accellerare (c.d. eutanasia indiretta) ovvero di farmaci che inducano la morte (eutanasia attiva) o ancora di pretendere che il terzo fornisca al malato gli stessi (c.d. suicidio assistito)[18].

E’ di tutta evidenza la differenza sostanziale tra le ipotesi descritte: nel primo caso  il soggetto, in uno stato di incapacità di intendere e volere e di irreversibilità della patologia, invoca semplicemente il rispetto del normale percorso biologico che, in assenza di interventi, peraltro inutili ed estremamente invasivi, evolverà naturalmente verso la morte[19].

L’esempio di importanti figure morali quali Papa Giovanni Paolo II e l’Arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini che come noto alle cronache, posti dinanzi alla scelta circa la possibilità dell’intervento medico con applicazione degli ausili di sostegno vitale e l’evolversi biologico  naturale della malattia hanno optato per il secondo, conferma più efficacemente di ogni altra considerazione la validità del fondamento circa i postulati assunti.

 

 


[1] Per una ricognizione sul dibattito in corso cfr: BORSELLINO P. Stato vegetativo e decisioni sulle cure, in GALLETTI M. e ZULLO S. (a cura di) La vita prima della fine Lo stato vegetativo tra etica, religione e diritto, 2008, FUP, pag. 111 ss; ID Bioetica tra “morali” e diritto, 2009, Raffaello Cortina, Milano, pagg. 90; BUSNELLI F. D. Lo statuto del corpo inanimato, in MAZZONI C. M. (a cura di) Per uno statuto del corpo, 2008, Giuffré, Milano, pp 192-194; BOLOGNA E. Il diritto e le decisioni di fine vita nella tradizione giuridica occidentale, in Vita Notarile, 1, 2009, pagg. 149 ss; CALÒ E. Il testamento biologico tra diritto e anomia, 2008, IPSOA, Trento; DELLI CARRI M. Il problema del rifiuto delle cure “salvavita” e l’ammissibilità del testamento biologico, in Vita Notarile, 1, 2009, pagg. 175; MANTOVANI F. Problematiche di fine della vita, in MAZZONI C. M. (a cura di) Per uno statuto del corpo, 2008, Giuffré, Milano, pagg. 202, 212-213; MARINI L. Il diritto internazionale e comunitario della bioetica, 2006, Giappichelli, Torino, pagg. 27- RODOTÀ S. La vita e le regole Tra diritto e non diritto, 2006, Feltrinelli, Milano, pp. 225ss; VERONESI U. Il diritto di morire La libertà del laico di fronte alla sofferenza, 2005, Mondadori, Milano; WELBY P. Lasciatemi morire, 2006, Rizzoli, Milano; ZATTI P. Il corpo e la nebulosa dell’appartenenza: dalla sovranità alla proprietà, in MAZZONI C. M. (a cura di) Per uno statuto del corpo, 2008, Giuffré, Milano, pp. 69-108; ENGLARO B. con NAVE E. Eluana La libertà e la vita, 2008, Rizzoli, Milano; NERI D. Il diritto di decidere la propria fine , in Trattato di Biodiritto di S. Rodotà e P. Zatti (a cura di), Il Governo del corpo, tomo 2, Milano, Giuffrè , 2011pp.1785 ss; BALDINI G. SOLDANO S. Nascere e morire :quando decido io?, FUP, Firenze, 2011 pp. 169 ss.

 

[2] Cfr tra gli altri: BARTOLOMMEI S. Sul diritto di essere lasciati andare (e il dovere di riuscirci) Lo stato vegetativo permanente e l’etica di fine vita, in GALLETTI M. e ZULLO S. (a cura di) La vita prima della fine Lo stato vegetativo tra etica, religione e diritto, 2008, FUP, pp 30-32; BORSELLINO P. Stato vegetativo e decisioni sulle cure, ivi, pag. 111; DEFANTI C. A. Terri Schiavo, Eluana Englaro e l’impasse della bioetica italiana, in Bioetica Rivista Interdisciplinare, 2, 2005, pagg. 15-29; BARNI M. BATTAGLIA L. CAPORALE C. COGHI I. M. D’AVACK L. DE BENEDETTI GADDINI R. FLAMIGNI F. GARATTINI S. GUIDONI L. NERI D. PIAZZA A. SCARPELLI M. L. e SCHIAVONE M. Nota integrativa al parere del Comitato Nazionale di Bioetica, L’alimentazione e l’idratazione di pazienti in stato vegetativo persistente, 30 settembre 2005, pp 8-11; FERRANDO G. Nutrizione e idratazione di pazienti in SVP A proposito del parere del CNB del 30 settembre 2005, in Bioetica Rivista Interdisciplinare, 4, 2005, pp. 85- 99; RICCIO M. Sulla morte cerebrale e sul consenso al trapianto di organi: una critica a Barcaro e Becchi, in Bioetica Rivista Interdisciplinare, 2, 2004, pp. 243, 245-246.

 

[3] Tra le prime città che hanno istituito i registri v. Roma X Municipio, Firenze, Pisa, Napoli, Arezzo.

[4] Per una ricognizione dei profili dell’istituo applicato al caso di specie cfr. RUSCELLO F. Amministrazione di sostegno e consenso ai trattamenti terapeutici, in Famiglia e Diritto, 1, 2005, Anno XII, IPSOA, Milano, pp. 87-94

 

[5] La prima applicazione dell’amministrazione di sostegno in tal senso risale al 2008. Il Trib di Modena con Dec 5 novembre 2008 riconosce il possibile impiego dell’istituto ‘ora per allora’ recependo nel provvedimento il contenuto della dichiarazione anticipata di trattamento precedentemente resa innanzi al Notaio dal soggetto. Nel caso di specie tale scrittura prevedeva che “In caso di malattia allo stato terminale, malattia o lesione traumatica cerebrale, irreversibile e invalidante, malattia che mi costringa a trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali che impediscano una normale vita di relazione, chiedo e dispongo di non essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico, con particolare riguardo a rianimazione cardiopolmonare, dialisi, trasfusione, terapia antibiotica, ventilazione, idratazione o alimentazione forzata e artificiale. Chiedo inoltre formalmente che, nel caso in cui fossi affetto da una delle situazioni
sopraindicate, siano intrapresi tutti i provvedimenti atti ad alleviare le mie sofferenze, compreso, in particolare, l’uso di farmaci oppiacei, anche se essi dovessero anticipare la fine della mia vita.
”.

 

[6] Il ragionamento del Giudice modenese prende le mosse “ da quelle norme della Costituzione che,
consacrando, e dando tutela, a diritti primari della persona, individuano i principi che l’ordinamento vigente ritiene insuscettibili di negoziabilità.
Nella piena condivisione degli approfondimenti compiuti da Cass., 16 ottobre 2007, n. 21748, entrano in gioco, per tal via, gli artt. 2, 13 e 32 e l’ormai indefettibile regola per cui è precluso al medico di eseguire trattamenti sanitari se non acquisisca quel consenso libero e informato del paziente che è presupposto espressivo del suo diritto primario di accettazione, rifiuto e interruzione della terapia.
Si tratta di un “diritto (assoluto) di non curarsi, anche se tale condotta (lo) esponga al rischio stesso della vita” (così, di recente Cass., 15 settembre 2008, n. 23676) che, in quanto tale, è giocoforza che debba, e possa, esprimersi anche nella terza direzione (volontà interruttiva) perché improntato alla sovrana esigenza di rispetto dell’individuo e dell’intimo nucleo della sua personalità quale formatosi nel corso di una vita in base all’insieme delle convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che ne improntano le determinazioni (cfr. Cass., n. 21748 cit. del 2007)”.
Sulla base di quanto precede  “rientrano nel diritto di autodeterminazione della persona al rispetto del percorso biologico naturale, diritto che allo stato dell’ordinamento è già compiutamente ed esaurientemente tutelato dagli artt. 2, 13 e 32 Cost., non soltanto i casi della persona capace che rifiuti o chieda di interrompere un trattamento salvifico, ma -come ha puntualmente chiarito Cass. n. 21748 cit. del 2007- anche quello dell’incapace che, senza aver lasciato disposizioni scritte, si trovi in una situazione vegetativa
valutata clinicamente irreversibile e rispetto al quale il Giudice si formi il convincimento, sulla base di elementi probatori concordanti, che la complessiva personalità dell’individuo cosciente era orientata nel senso di ritenere lesiva della concezione stessa della sua dignità la permanenza e la protrazione di un stato vegetativo senza speranze di guarigione e, comunque, di miglioramenti della qualità della vita”.
Il Tribunale precisa poi che “La lettera della disposizione [art. 408 c.c.], la sua ratio, l‘enunciazione, infine,
nell’ambito di una disciplina tutta incentrata sulla tutela della persona e delle sue esigenze esistenziali, autorizzano e legittimano la constatazione che l’amministrazione di sostegno è, nell’attualita’, l’istituto appropriato per esprimere quelle disposizioni anticipate sui trattamenti sanitari per l’ipotesi di incapacità che vanno usualmente sotto il nome di testamento biologico
”.

[7] Per una ricognizione sul punto v.Le disposizioni anticipate del paziente: prospettiva civilistica, in Trattato di Biodiritto di S. Rodotà e P. Zatti (a cura di), Il Governo del corpo, tomo 2, cit., pp 1935ss.; CALO E.. Il testamento biologico tra diritto e anomia, cit.

 

[8] Corte Cost. Sent. 471/1990

 

[9] V. in maniera esemplificativa Corte Cost. sent 151/09 in materia di PMA laddove si ricorda come “…la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente posto l’accento sui limiti che alla discrezionalità legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica: sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali (sentenze n. 338 del 2003 e n. 282 del 2002)”.

 

[10] Convenzione sulle Biotecnologie, Consiglio d’Europa 4 aprile 1997 (ratificata con l. 145/01).

 

[11] Carta dei Diritti Fondamentali UE approvata col Trattato di Lisbona del 1.12.2009.

 

[12] Art. 35: “Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente (…).In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona. Il medico deve intervenire, in scienza e coscienza, nei confronti del paziente incapace, nel rispetto della dignità della persona e della qualità della vita, evitando ogni accanimento terapeutico, tenendo conto delle precedenti volontà del paziente”.

Art. 38 “Il medico,se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà,deve tener conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato.”

 

[13] Precisa la Corte come “La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32, secondo comma, della Costituzione” (Corte cost., sent 438/08).

[14] Secondo la Corte “Ove il malato giaccia da moltissimi anni in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”(Cass 21748/07; analogamente Cass. n. 23676 del 15.10.08; Cass. 27145 del 13.11.08).

Per un primo commento cfr. SANTOSUOSSO A. La volontà oltre la coscienza: la Cassazione e lo stato vegetativo, in La Nuova Giurisprudenza Civile commentata, 2008, Parte II, pag. 1

 

[15] Osserva la Corte come “il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: senza il consenso informato l’intervento del medico è sicuramente illecito, anche quanto è nell’interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi”(Cass 21748/07).

Anche più di recente la Corte di legittimità  ha avuto modo di precisare che “Il diritto al consenso informato, in quanto diritto irretrattabile della persona, va comunque e sempre rispettato dal sanitario, a meno che non ricorrano casi di urgenza, rinvenuti, a seguito di un intervento concordato e programmato e per il quale sia stato richiesto e sia stato ottenuto il consenso, che pongano in gravissimo pericolo la vita della persona, bene che riceve e si correda di una tutela primaria nella scala dei valori giuridici a fondamento dell’ordine giuridico e del vivere civile, o si tratti di trattamento sanitario obbligatorio. Tale consenso è talmente inderogabile che non assume alcuna rilevanza per escluderlo che l’intervento absque pactis sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto,(…) , per cui nei suoi confronti, comunque, si consuma una lesione di quella dignità che connota nei momenti cruciali – la sofferenza fisica e/o psichica – la sua esistenza” (Cass. Sez. III, 28 luglio 2011, n. 16543) e  “Il consenso informato deve essere presente sia nella fase di formazione del consenso, sia nella fase antecedente che in quella di esecuzione del contratto, riconducibile (come in altri settori) alla clausola generale di buona fede del nostro ordinamento civilistico ex artt. 1175, 1337, 1375 c.c.” (Cass. 10741/2009).

 

[16] Come affermato da Cass., 15 settembre 2008, n. 23676, si tratta di un “diritto (assoluto) di non curarsi”, anche se tale condotta espone il soggetto al rischio stesso della vita.. Analogamente v. Cass 21748/2007 la quale ricorda come

 

[17] V. Cass. 21748/07.

[18] Conf il Trib di Modena cit., il quale osserva come: “Rigore logico impone di convenire che tutti questi casi esulano dalla fattispecie dell’eutanasia in senso proprio di cui si trova identificazione concettuale appagante, e regolamentazione, negli ordinamenti olandese e belga che legittimano interventi accelerativi del naturale percorso biologico di morte per la persona capace di intendere e di volere che, affetta da sofferenze
insopportabili e senza prospettive di guarigione, chiede le venga praticato un farmaco mortale, se non in grado di autosomministrarselo, ovvero, ed e’ il c.d. suicidio assistito, di fornirglielo così che possa assumerlo.
In senso esattamente opposto, tutte le situazioni qui considerate si caratterizzano per il rispetto del normale percorso biologico sotto il profilo di non interferenza con il suo corso ovvero di suo ripristino, se forzatamente rallentato; nulla a che vedere, dunque, con l’eutanasia la cui essenza consiste nell’indotta accelerazione del processo di morte”.

Per una analisi in tema di eutanasia cfr. S.TONDINI CAGLI, Le forme dell’eutanasia, in Trattato di Biodiritto di S. Rodotà e P. Zatti (a cura di), Il Governo del corpo, tomo 2, cit., pp.1841 ss; G. FERRANDO, Fine vita e rifiuto di cure: profili civilistici, ivi, pp. 1865 ss; L. D’AVACK, Il rifiuto delle cure del paziente in stato di incoscienza, ivi, pp. 1917 ss.

 

[19] Come significativamente ricorda La Corte di legittimità nel caso Englaro, “Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale. E d’altra parte occorre ribadire che la responsabilità del medico per omessa cura sussiste in quanto esista per il medesimo l’obbligo giuridico di praticare o continuare la terapia e cessa quando tale obbligo viene meno: e l’obbligo, fondandosi sul consenso del malato, cessa – insorgendo il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del paziente contraria alle cure – quando il consenso viene meno in seguito al rifiuto delle terapie da parte di costui”.