L’Associazione Luca Coscioni co-promuove l’appello “Il corpo recluso e il diritto all’intimità”

XII Libro bianco droghe presentazione

L’appello è stato redatto dal Professor Andrea Pugiotto dell’Università di Ferrara ed è promosso dall’Associazione Luca Coscioni, la Società della Ragione e il Centro per la Riforma dello Stato

Il 5 dicembre, la Corte costituzionale è convocata in udienza pubblica per decidere una questione scandalosa: in assenza di contrarie ragioni di  sicurezza, vietare al detenuto di «svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale,  con la persona convivente non detenuta», senza il controllo a vista da parte del  personale di custodia (imposto dall’art. 18 dell’ordinamento penitenziario), è  conforme alla Costituzione e alla CEDU? 

Per chi non accetta l’orizzonte di una pena che non può essere mai contraria  al senso di umanità e che deve sempre tendere alla risocializzazione del reo (art. 27,  3° comma, Cost.), scandalosa è l’idea stessa di un diritto all’intimità dietro le sbarre.  Perché dentro si deve stare peggio che fuori: altrimenti che galera sarebbe? Hanno  già la televisione: che cosa pretendono ancora? Le celle a luci rosse e le sezioni del  carcere trasformate in postriboli?

A nostro avviso, invece, la questione è scandalosa per tutt’altre ragioni. Etimologicamente, σκάνδαλον sta per ostacolo, inciampo. Tale è la domanda  riproposta dal Tribunale di sorveglianza di Spoleto a una Corte costituzionale che,  dieci anni fa, diede già la sua risposta. 

Investita di analoga quaestio, con sent. n. 301/2012 la dichiarò  inammissibile per ragioni processuali, ma in motivazione la Consulta fu inequivoca:  è «una esigenza reale e fortemente avvertita […] quella di permettere alle persone  sottoposte a restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni  affettive intime, anche a carattere sessuale: esigenza che trova attualmente, nel  nostro ordinamento, una risposta solo parziale. […] Si tratta di un problema che  merita ogni attenzione da parte del legislatore, anche alla luce delle indicazioni  provenienti dagli atti sovranazionali […] e dall’esperienza comparatistica che vede  un numero sempre crescente di Stati riconoscere, in varie forme e con diversi limiti,  il diritto dei detenuti ad una vita affettiva e sessuale intramuraria». 

Che séguito ha avuto quel monito così perentorio, rivolto agli organi della  legislazione? 

Nella XVII legislatura, è stata approvata la delega legislativa di riforma  dell’ordinamento penitenziario (legge n. 103 del 2017) che, tra i suoi principi e  criteri direttivi, prevedeva espressamente «il riconoscimento del diritto  all’affettività delle persone detenute e internate e la disciplina delle condizioni  generali per il suo esercizio» (art. 1, 85° comma). In sede di attuazione, però, i decreti legislativi nn. 123 e 124 del 2018 non hanno introdotto alcuna disciplina in  materia.

Né la postura del legislatore è cambiata nella scorsa XVIII legislatura,  nonostante le pertinenti iniziative legislative presentate alle Camere dai Consigli  regionali della Toscana (AS n. 1876) e del Lazio (AC n. 3488 e AS n. 2543).  Entrambe non hanno avuto alcun séguito parlamentare. 

Il decennale silenzio seguìto alla sentenza n. 301/2012, dunque, esprime  qualcosa di più di una protratta inerzia legislativa: cela, semmai, un deliberato rifiuto di modificare lo stato delle cose. 

Eppure, il «vero e proprio divieto» di esercitare l’affettività-sessualità con il  proprio partner in contesto penitenziario solleva plurimi dubbi di costituzionalità.  Nella sua ordinanza di rinvio il Tribunale di sorveglianza di Spoleto li argomenta,  a nostro avviso persuasivamente. 

Violato è l’articolo 2 della Costituzione, che garantisce i diritti fondamentali della persona sia  come singolo che nelle formazioni sociali intermedie: tale è la libera espressione  dell’affettività, anche all’interno del carcere in cui il detenuto svolge la propria  personalità. 

Violato è l’articolo 13, 1° comma della Costituzione, che garantisce la libertà personale,  intesa come disponibilità del proprio corpo: la forzata astinenza sessuale, invece,  ne determina una compressione non sempre giustificata da ragioni di sicurezza,  traducendosi in un surplus di sofferenza oltre a quella conseguente alla legittima  detenzione. 

Violato è l’articolo 13, 4° comma della Costituzione, che vieta ogni violenza fisica e morale  sul detenuto: «una amputazione così radicale di un elemento costitutivo della  personalità, quale la dimensione sessuale dell’affettività» trasmoda, invece, in una  vessazione «umiliante e degradante» non solo per il recluso, ma anche per il suo  partner

Violato è l’articolo 27, 3° comma della Costituzione, che esige pene improntate a umanità e  finalizzate alla rieducazione: invece, l’inumana privazione dell’intimità sessuale fa  regredire il detenuto a una «dimensione infantilizzante» e produce «conseguenze desocializzanti». 

Violati in solido sono gli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione, posti a tutela delle relazioni  familiari: il divieto della sessualità intramuraria, invece, «logora i rapporti di  coppia», anche a danno della serenità dei figli, e pregiudica la «possibilità di  accedere alla genitorialità» ove desiderata. 

Violato è l’articolo 32 della Costituzione, che assicura il diritto alla salute: prevedibili, invece,  sono le negative conseguenze psico-fisiche su un adulto costretto a una prolungata  e coatta astinenza sessuale. 

Violato è l’articolo 117, 1° comma, che impone il rispetto degli obblighi internazionali pattizi: la preclusione di relazioni sessuali in carcere, invece,  contraddice il divieto di trattamenti inumani e degradanti (art. 3 CEDU) e il diritto  al rispetto della propria vita privata e familiare (art. 8 CEDU). 

Tali e tante criticità costituzionali – a nostro parere – possono riassumersi nella comune lesione al principio supremo della dignità del detenuto.  

Il diritto all’affettività, infatti, è stato inquadrato dalla Consulta tra le libertà  costituzionalmente garantite (sentenza n. 561/1987). Ma se il diritto all’intimità  sessuale (incapsulato nel diritto all’affettività) ha valore costitutivo della dignità  umana, non lo si può negare a una persona in ragione della sua condizione di  cattività, che – come attestano l’esperienza comparata e le fonti di soft-law  transnazionali – non è necessariamente incompatibile con il suo esercizio. 

Né il diritto all’affettività-sessualità del detenuto può ritenersi soddisfatto  grazie ai periodici permessi premio (quarantacinque giorni all’anno, al massimo).  Da un lato, sono molti i detenuti che, de jure o de facto, non accedono né possono  aspirare a queste eventuali parentesi extrapenitenziarie. Dall’altro, una simile  alternativa piega a un’impropria logica premiale il godimento di un diritto  fondamentale: come se l’esercizio della sessualità dovesse meritarsi, spettando solo  ai “buoni” e non anche ai “cattivi”.  

Siamo convinti che vi siano ragionevoli motivi per attendersi, questa volta,  un sindacato nel merito della questione di costituzionalità sollevata. Appare poco convincente opporvi l’argomento piglia-tutto della political  question (art. 28, legge n. 87 del 1953), preclusa alla Corte costituzionale. Alla  Corte, infatti, non viene chiesta la creazione di un nuovo diritto fondamentale, bensì  la rimozione di una discriminazione contraria a Costituzione derivante da una  (voluta e persistente) omissione legislativa. Nella logica della rigidità costituzionale,  è dovere della Consulta applicare i limiti che la Costituzione impone all’intero  ordinamento, composto da disposizioni esplicite come da norme implicite (ma  viventi). 

Così come – a nostro parere – non si giustificherebbe la soluzione di un  rinnovato monito al legislatore, foss’anche nella forma rafforzata di  un’incostituzionalità prospettata ma differita ad altra udienza: tecnica che la  Consulta ha già adoperato in ambito penitenziario, affrontando l’istituto del c.d.  ergastolo ostativo (ordd. nn. 97/2021, 122/2022, 227/2022). A che pro, a distanza  di dieci anni dal precedente monito che il legislatore non ha semplicemente ignorato,  ma deliberatamente disatteso? 

Non mancano, infatti, alla Corte costituzionale altre tecniche decisorie  idonee a risolvere, nel merito, il caso in esame. 

Una è prefigurata dal Tribunale di sorveglianza di Spoleto, laddove segnala  l’articolo 19 dell’ordinamento penitenziario minorile che prevede espressamente la  possibilità per il recluso di usufruire di incontri (due al mese) prolungati (da quattro  a sei ore) «con i congiunti o con le persone con cui sussiste un significativo legame  affettivo», da svolgersi in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli  istituti, pensate per riprodurvi un ambiente domestico.  

Secondo un recente (ma già consolidato) orientamento della giurisprudenza  costituzionale, è possibile dichiarare ammissibile e accogliere una quaestio laddove  sia rinvenibile nell’ordinamento una «soluzione costituzionalmente adeguata,  benché non obbligata» (sentenza n. 40/2019); soluzione normativa che la Corte può imporre transitoriamente, in attesa del futuro intervento del legislatore. È una nuova  tecnica manipolativa, a rime possibili, nata nell’ambito del sindacato di  costituzionalità sulla misura delle pene, ma che la Consulta ha già esteso anche ad  altri ambiti ordinamentali (cfr. sentenza n. 62/2022, in tema di riequilibrio della  rappresentanza di genere). Dunque, generalizzabile. 

Ebbene, l’articolo 19 citato potrebbe rappresentare il gancio normativo  necessario alla Corte costituzionale per pronunciare la sentenza additiva richiesta  dal giudice remittente. 

In alternativa, l’accoglimento della quaestio potrebbe tradursi in una  sentenza additiva di principio. 

Con simili decisioni, la Corte costituzionale dichiara illegittima l’assenza di  una disciplina idonea ad assicurare l’effettività di un diritto costituzionalmente  riconosciuto. In prospettiva, il giudicato costituzionale vincola il legislatore ad  introdurla. Nel frattempo, immette nell’ordinamento un principio cui fare già  riferimento in sede applicativa, per porre rimedio all’illegittima omissione. 

La garanzia interinale del diritto alla sessualità inframuraria così  riconosciuto, dunque, graverà sui giudici di sorveglianza e sull’amministrazione:  quest’ultima, in particolare, potrà provvedere – tramite circolare o per via  regolamentare – alla definizione di modi e limiti del diritto alla sessualità  inframuraria.

Fino ad oggi, la privazione dell’affettività-sessualità ha rappresentato  un’autentica e indifferenziata pena accessoria. Il codice penale non la contempla,  Nessun giudice l’ha mai irrogata. Eppure, è regolarmente inflitta al soggetto recluso  (e al suo partner incolpevole). 

Noi pensiamo si tratti di una primitiva sanzione corporale, contraria al  disegno costituzionale delle pene. Confidiamo che il Giudice delle leggi, viva vox  Constitutionis, la rimuova dall’ordinamento penitenziario perché, anche dietro le  sbarre, le parole amore e Costituzione non sono incompatibili.