Le malattie vengono definite in base alla loro biologia e fisiopatologia. Una persona è ammalata di una tale malattia perché presenta segni fisici e segnalatori di quella tale malattia: varianti geniche precise, biomarcatori che si possono rilevare nel sangue o alterazioni specifiche dell’organo colpito. Il poter fare diagnosi con questi segni diretti o indiretti di malattia prima che compaiano i sintomi veri e propri della malattia è senza alcun dubbio un successo della ricerca. La diagnosi precoce delle malattie metaboliche in età neonatale è un esempio di applicazione di questa conoscenza preventiva benefica. La cura successiva, in caso di una diagnosi prima dei sintomi, si presenta come tutto quello che si può fare perché la malattia non si manifesti o esprima in forma attenuata e il più tardi possibile.
La forma di demenza che Alzheimer descrisse nel 1906 riconosce dei biomarcatori già dal 2007 grazie al gruppo di lavoro internazionale IWG e, negli ultimi anni, riconosce anche mutazioni geniche che permettono di fare diagnosi molto prima dell’eventuale comparsa della malattia che sappiamo esordire prima della cosiddetta terza età.
Nella non completa conoscenza della fisiopatologia della demenza di Alzheimer questi segni biologici di malattia non sono deterministici in modo assoluto, cioè non portano inevitabilmente alla comparsa dei sintomi della demenza e, allo stato attuale, non ci sono elementi che possano determinare con precisione il percorso di questa malattia: quando comparirà, con che gravità e con che progressione. Un prelievo del sangue o una puntura lombare può diagnosticare un futuro probabile Alzheimer, cioè una persona che perderà progressivamente la memoria, avrà momenti di confusione fino alla perdita delle sue funzioni mentali superiori, ma non è detto quando e che questo avvenga sicuramente.
A me pare fuori discussione che avere una diagnosi in anticipo di una malattia così invalidante sia un vantaggio. Recentemente, il gruppo IWG ha confermato che i biomarcatori hanno un ruolo diagnostico, si auspicano che in futuro i test possano diventare di routine, magari con la terapia specifica, “una pillola o un altro trattamento per ritardare o prevenire del tutto la demenza”.
Ma non tutti pensano che conoscere in anticipo la probabilità di diventare dementi sia un vantaggio. E il dibattito che ne consegue è interessante.
C’è chi solleva la necessità di cautela etica di fronte alla comunicazione di una diagnosi importante affiancata all’assenza di un trattamento specifico efficace (a proposito, due farmaci che modificano la malattia e non la guariscono, approvati dalla Food and Drug Administration statunitense sono stati bocciati dall’Agenzia europea EMA e quindi non in commercio da noi) perché la diagnosi prima del decadimento in atto potrebbe innescare reazioni psicologiche pericolose di fronte ad una diagnosi di malattia così pesante che poi magari non si manifesta completamente.
C’è chi solleva la questione del possibile rischio di discriminazione in ambito lavorativo o assicurativo, per cui gli individui a rischio di sviluppare demenza verrebbero marchiati anzitempo.
“Il paternalismo in Medicina è una cattiva idea. Bisogna dire alla gente la verità e spiegare che cosa significa” dice a proposito un ricercatore di IWG. Come non essere d’accordo con lui?
Le varie questioni sollevate da chi sostiene che sia pericolosa la diagnosi precoce di malattia di Alzheimer trovano appropriate soluzioni. La Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea e la Convenzione europea dei diritti umani contengono norme a protezione da discriminazioni proprio su base genetica. Ci sono ricerche effettuate sull’impatto psicologico derivato dalla notizia di essere affetti da demenza che stabiliscono come la maggior parte delle persone volevano l’informazione e che, anche se la notizia della diagnosi è definita sconvolgente, era un’informazione che riuscivano a gestire, non fonte di “angoscia estrema”. La ricerca può solo beneficiare del fatto di poter identificare persone a rischio di demenza, rendendo gli studi più efficienti e meno costosi. Il rischio di medicalizzare una condizione medica priva di sintomi e che industrie del farmaco e dell’integratore trovino terreno per i loro profitti è realtà ahimè diffusa nel nostro Paese e non certamente solo legata alla demenza e ai decadimenti cognitivi.
Mentre leggevo di queste cose nella rivista Mind (“Prima dei sintomi” di Laura Hercher) riflettevo proprio sul fatto che redimere questioni come quella suscitata dalla diagnosi precoce della malattia di Alzheimer porti a definire sostanzialmente due contenuti.
Il primo riguarda la constatazione che la scienza coi suoi progressi sta andando più veloce della politica che spesso non è pronta a mettere a disposizione quei nuovi strumenti legali, sociali e clinici per aiutare i cittadini e i malati. Le giustificazioni di una politica in ritardo, che non guarda l’attuale, non possono trovare rifugio in un atteggiamento che surrettiziamente avvalla la necessità di tutela del cittadino e che rischia poi di fatto di tradursi in un fatalistico abbandono della persona. In questo caso, il paternalismo vorrebbe che non solo non si attivasse uno screening di massa (economicamente permettendo) per identificare l’Alzheimer pre-sintomatico ma anche che non si attivino quelle conoscenze personali che farebbero sentire ammalata una persona di qualcosa di grave che non ha guarigione.
Personalmente penso invece che la ricerca e il diritto di godere dei benefici della scienza siano elementi che ci inducono a pensare alla salute di ognuno di noi come alla possibilità di poter avere a disposizione un ricco ventaglio di strumenti, informazione corretta compresa (a proposito, avete letto che recentemente in una sede istituzionale del Ministero della Salute a presiedere una convention sulla natura dei tumori è stato chiamato l’astrologo Jupiter?), strumenti che ci aiutano a scegliere per il nostro meglio. La politica non dovrebbe ostacolare ma semplicemente normare a difesa del cittadino, del malato e del morente. E magari non sostenere quali esperti di scienza gli oracoli pseudo scientifici.
Il secondo tema riguarda l’inclinazione culturale a pensare al cittadino e al malato come governatore sempre capace (con le dovute eccezioni della incapacità naturale e istituzionale) e responsabile della propria salute e delle proprie scelte di vita. Entro questa cornice, il sapere di una scoperta scientifica, in questo caso la possibilità di avere una diagnosi di Alzheimer prima che si manifesti la perdita cognitiva, è materiale a disposizione per i relativi vantaggi che ne possono derivare alla persona.
Conosciamo l’angoscia che le persone vivono all’idea di cadere in uno stato d’incapacità cognitiva che li porterebbe a diventare passivi di fronte alle decisioni altrui, essere inseriti in una Casa di Riposo senza consenso, per esempio, o a subire assistenza e trattamenti non voluti.
La Legge 219/2017 prevede la possibilità di pianificare le conseguenze e le complicanze di una malattia “cronica ed invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta” (art.5). A mio avviso, stanti i principi di autodeterminazione della persona e l’attuale mancanza di un trattamento efficace che possa arrestare questa malattia del cervello, le condizioni ci sono tutte per realizzare la possibilità che una persona diagnosticata con markers genetici o ematochimici affetta da demenza di Alzheimer possa, anni prima dell’esordio della perdita cognitiva, pianificare con un medico e con una persona di fiducia le sue scelte future. La pianificazione condivisa delle cure prevede che l’interessato metta nero su bianco le sue scelte, con l’aiuto del medico che le annota e le rende documento. Potrebbero, con questo strumento, essere evitati gli angosciosi scenari di assistenza passiva fino alla decisione, nell’ambito del rispetto delle determinazioni assunte, d’interruzioni di trattamenti, di alimentazione e idratazione e richiesta di presa in carico dalle Cure Palliative, come la legge prevede (o di altre scelte, come un uccellino dal futuro mi suggerisce). Nel lavoro di stesura della pianificazione il medico dovrà ben comprendere il limite di tolleranza e di dignità definito per se stesso dall’interessato, aiutandosi con precisi esempi che possano definire con la massima precisione possibile lo stato cognitivo limite oltre il quale la persona non ritiene più essere se stessa. A dar man forte al valore della pianificazione è prevista la figura di una persona di fiducia voluta dall’interessato, testimone e garante del rispetto delle scelte quando la testa non comanderà più.
Immagino persone con familiarità per la demenza tipo Alzheimer che possono, dopo l’opportuna valutazione e test, rasserenare le loro angosce poiché in caso di positività potranno essere capaci, decidendo in anticipo sul probabile declino, di dire come vogliono vivere fino alla fine e come non vogliono sopravvivere.
Diego Silvestri è medico psichiatra, in pensione dal 2021. Ha lavorato presso strutture sanitarie pubbliche in Veneto dove ha ricoperto anche ruoli di responsabilità. È stato professore universitario nella facoltà di Infermieristica a Verona e docente per diversi anni nei corsi per operatore socio sanitario. Presidente della cellula Vicenza Padova. Fa parte del gruppo di lavoro che gestisce il Numero Bianco ed è consigliere generale dell’Associazione Luca Coscioni