Piergiorgio Welby e la richiesta di eutanasia. 12 anni dopo a che punto siamo?

Piergiorgio Welby e la richiesta di eutanasia

Sono passati dodici anni dalla morte di Piergiorgio Welby, simbolo della lotta per la legalizzazione dell’eutanasia e per il rifiuto dell’accanimento terapeutico.

Era il 20 dicembre del 2006 e alle ore 23.45 Piergiorgio Welby, simbolo italiano della lotta contro l’accanimento terapeutico e per l’eutanasia legale, si spegneva all’età di 61 anni. Ad aiutarlo nel distacco del respiratore il dottor Mario Riccio. Per decenni Welby ha combattuto contro la distrofia fascio-scapolo-omerale che lo colpì in forma grave all’età di soli 16 anni. Negli anni ’80 perse l’uso delle gambe, in seguito la patologia lo portò a vivere allettato, senza più la possibilità di muoversi. La sua battaglia per l’approvazione di una legge che legalizzasse l’eutanasia cominciò nel 1997, dopo l’ennesima crisi respiratoria e la conseguente necessità di trascorrere la propria vita attaccato a un respiratore artificiale. Da quel giorno e per i successivi 9 anni, Piergiorgio Welby e la moglie Mina, insieme a Radicali Italiani e all’Associazione Luca Coscioni, iniziarono una lunga battaglia per la libertà di scelta anche nel fine vita.

Dopo dodici anni dalla morte di Piergiorgio Welby e la richiesta di eutanasia, la battaglia non è ancora completamente vinta nonostante l’approvazione della legge sul biotestamento che ora in Italia ha legalizzato quella che viene definita “eutanasia passiva”.

Il 3 marzo del 2016, per la prima volta nel nostro Paese, quattro proposte di legge -di cui una di iniziativa popolare presentata nel 2013 dal Comitato Eutanasia Legale– arrivano in Commissione congiunta Giustizia e Affari Sociali a Montecitorio. Vengono frettolosamente analizzate e ne viene rimandata la discussione a data da destinarsi. Da quel momento, lo stallo. Ad oggi, 1044 giorni dopo quel momento, non vi è stata una nuova discussione nonostante alla richiesta dei tanti malati che si sono rivolti all’Associazione Luca Coscioni si sia sommata anche la richiesta di discussione da parte della Corte costituzionale, spronata dalla disobbedienza civile di Marco Cappato per l’aiuto a raggiungere la Svizzera fornito a Dj Fabo.

In Italia, chi aiuta un malato terminale a morire -come un genitore o un figlio che vuole smettere di soffrire- rischia fino a 12 anni di carcere. Il diritto costituzionale a non essere sottoposti a trattamenti sanitari contro la nostra volontà è costantemente violato. Piergiorgio amava la vita nonostante fosse affetto da distrofia muscolare. Per lui la vita era un’altra cosa da quel letto in cui era completamente paralizzato. Se anche per te la vita è un’altra cosa, aiutaci firmando su EutanasiaLegale.it

Mina Welby, 8 maggio 2014