Non c’è pace senza giustezza (di analisi e proposte)

Episodio 1

Primo post di una serie dedicata alla “pace sostenibile” e alla sglobalizzazione dei tornaconto di breve periodo

Dal 2016, grazie a due risoluzioni “gemelle” adottate dal Consiglio di Sicurezza e dall’Assemblea generale dell’Onu (A/RES/70/262 and S/RES/2282), si parla di “pace sostenibile”. Eppure nessuno dei politici, o degli esperti e commentatori, che sono intervenuti in questi giorni di guerra ne ha fatto esplicita menzione. Neanche da parte pacifista o nonviolenta. 

Non che di per sé sia un problema, ma è la conferma che in Italia sull’altare della polemica politica (specie quella a reti unificate) si sacrifica sistematicamente quanto a livello globale si cerca di fare per arginare i conflitti armati (e non).

Secondo i documenti dell’Onu, la pace sostenibile è da intendersi in senso lato come un “obiettivo e un processo con attività volte alla prevenzione dei conflitti, sostenuto da un approccio incentrato sulle persone come previsto dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e fondato sulle leggi e sugli standard internazionali in materia di diritti umani”, una formula difficilmente non sposabile in toto ma totalmente onnicomprensiva da risultare generica se non inutile. 

Dovendo mettere tutti d’accordo, i documenti delle Nazioni unite non possono che essere una ripetizione di testi precedenti ed evocazioni di principi generali e basterebbe questo paragrafo per riassumere il guazzabuglio di buoni propositi in salsa onusiana:

“Si sottolinea l’importanza di un approccio globale al sostegno della pace, in particolare attraverso la prevenzione dei conflitti e affrontando le cause profonde, rafforzando lo stato di diritto a livello internazionale e nazionale e promuovendo una crescita economica sostenuta e sostenibile, l’eradicazione della povertà, lo sviluppo sociale, sviluppo, riconciliazione e unità nazionale, anche attraverso il dialogo inclusivo e la mediazione, l’accesso alla giustizia e alla giustizia di transizione, la responsabilità, il buon governo, la democrazia, le istituzioni responsabili, l’uguaglianza di genere, il rispetto e la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali”.

Più avanti il testo richiama anche la necessità di politiche inclusive in particolare sul “ruolo centrale per le donne, anche per le giovani donne”. Anche qui nessuno che abbia avuto da eccepire al momento della formulazione dei nobili intenti.

In politica, però, oltre al “cosa” è fondamentale articolare anche il “come”, cioè identificare gli obiettivi perseguibili per organizzare risposte concrete ai problemi che si vogliono affrontare.

Torniamo però alla guerra in corso. Lasciando da parte le analisi geo-politiche o geo-strategiche che tanto piacciono a chi vive in TV, è un dato di fatto innegabile che la potenza della Russia, e il delirio di onnipotenza del suo presidente, sia legata al godere di una posizione dominante per quanto riguarda la fornitura di fonti energetiche e altre materie prime, una posizione che viene spesso abusata per agire indisturbato a casa propria e, negli ultimi 14 anni, per espandersi impunemente (almeno per il momento) a scapito dell’integrità territoriale e sovranità nazionale di paesi vicini (spesso altrettanto ricchi di materie prime).

All’inizio del Terzo Millennio siamo stati bombardati da varie argomentazioni per giustificare interventi armati o conflitti asimmetrici (sempre per usare formule da tuttologi), tra queste per molti anni è stata centrale la “promozione della democrazia” – da alcuni (specie se contrari) denominata “esportazione delle democrazia – come antidoto ai regimi autoritari che, magari a loro insaputa, consentivano l’organizzazione e il rafforzamento di reti di terroristi o li difendevano dalla guerra globale al terrore che fu lanciata a seguito degli attentati dell’11 di settembre del 2001.

Purtroppo, quella democrazia che si voleva promuovere, o esportare, non era una democrazia liberale, non si fondava sui diritti umani o lo Stato di Diritto internazionale non aveva a cuore la libertà individuale a tutto tondo, era un simulacro di democrazia il cui avvento che si risolveva con la riscrittura delle Costituzioni, in ossequio però alle tradizioni locali e al relativismo culturale (vedasi il caso Afghanistan divenuto “Repubblica islamica”), e l’organizzazione di “libere elezioni” multipartitiche per legittimare le nuove istituzioni nate dalla cancellazione del regime autoritario precedente. 

Purtroppo in nessuno di questi casi si sono gettate le basi per una democrazia sostenibile, una democrazia istituzionale e politica che consentisse un futuro di segno nettamente diverso per chi per decenni aveva subito violente persecuzioni, discriminazioni o esclusioni dalla vita civile, politica, economica, sociale e culturale del proprio paese. Nella migliore delle ipotesi una ex mafia perdente ha sostituito la ex mafia vincente, nella peggiore centinaia di migliaia di persone hanno perso la vita e milioni la casa e il contatto con la propria terra.

Lasciando, almeno per ora, da parte quello che difficilmente può esser imposto a uno stato sovrano dall’esterno – e cioè il rispetto dei diritti umani e le necessarie riforme democratiche che lo potrebbero consentire insieme alla possibilità di scelte libere e consapevoli – ci sono decisioni nazionali o locali che possono concorrere a sbilanciare le pericolose relazioni internazionali che la globalizzazione del tornaconto immediato degli oligopoli capitalisti e delle oligarchie al potere ha creato e consolidato.

Scelte politiche che sarebbero in linea con decine di raccomandazioni internazionali frutto di anni di analisi e proposte “per il bene dell’umanità” adottate all’unanimità. Eccone alcune.

Dove saremmo se la lotta all’impunità per le più gravi massicce e sistematiche violazione delle leggi della guerra fosse stata affidata a una Corte senza giurisdizione universale invece che a una competente solo per situazioni e responsabili appartenenti agli stati che ne hanno ratificato il trattato istitutivo?

Dove saremmo oggi se le raccomandazioni dell’Intergovernmanetal Panel on Climate Change relative agli investimenti in fonti energetiche meno inquinanti o rinnovabili, o il risparmio dell’acqua e del suolo, fossero state prese in seria considerazione già 30 anni fa? 

Dove saremmo se le relazioni internazionali ed economiche si fondassero sul principio di condizionalità per cui i ricchi investono o donano ai meno ricchi pretendendo che il tutto avvenga nel rispetto degli standard internazionali relativi ai diritti lavorali o ai vincoli ambientali che prevediamo, almeno teoricamente, a casa nostra?

Dove saremmo oggi se il progresso scientifico, proprietario e non, relativo al cibo del futuro fosse stato preso in considerazione per consentire colture nel rispetto delle culture e della biodiversità e grazie alla necessaria innovazione per consumare meno suolo, meno acqua, meno agrofarmaci, infliggendo meno “inumane” sofferenze agli animali che mangiamo?

Dove saremmo oggi se avessimo investito per promuovere il risparmio energetico o annullare lo spreco di cibo? Qualcuno ha forse sentito qualche capo di Stato o di Governo rilanciare la raccomandazione dell’Agenzia internazionale per l’energia di abbassare di un grado (un grado!) i nostri termosifoni per diminuire l’impatto della bolletta del gas russo? 

E infine, dove saremmo se il diritto a essere informate e informati fosse garantito dai servizi radiotelevisivi pubblici e privati in modo tale da offrire approfondimenti di qualità e relativi a questioni che interessano temi al centro delle effettive e reali necessità dell’uditorio? Dove saremmo se i reportage o i dibattiti fossero organizzati per fornire a chi ascolta o guarda conoscenza e strumenti critici per reagire attivamente a quanto comunicato e non solo a generare indignazione o reazioni a opinioni di persone che di mestiere commentano qualsiasi cosa? 

Saremmo in pace? Nessuno può dirlo con certezza, ma nessuno Stato o istituzione sovranazionale si è messo in agenda di mettere in pratica tutte queste raccomandazioni (spesso corredate di impegni formali solenni). Nessuno, neanche i progressisti Paesi Nordici sono riusciti a esser conseguenti alla loro reputazione e grande attenzione alle libertà e allo Stato Sociale. 

Quel che possiamo dire con certezza è che stiamo assistendo a una guerra di aggressione e che non è escluso che la dipendenza da gas, grano e precursori chimici russi abbia giocato un ruolo importante, se non centrale, perché Putin si sentisse intoccabile. Una sensazione che gli ha consentito di invadere, nuovamente, l’Ucraina e di farlo senza suscitare uno scandalo globale tale da esser confrontato con la risolutezza necessaria, se è vero, com’è purtroppo vero, che non tutte le sanzioni possibili sono state imposte e si è tergiversato nel fornire aiuto politico, diplomatico e militare all’Ucraina arrivando addirittura a chiarire al Presidente Zelenksy che la sua richiesta di adesione all’Unione europea era benvenuta ma impraticabile immediatamente per le necessarie riforme e tempistiche eccetera eccetera eccetera. 

Quindi che fare? Tanti anni fa girava lo slogan “pensare globale agire locale”, oggi occorrerebbe quasi rovesciare l’assunto perché, senza una reputazione fondata sul rispetto delle nostre regole, della legalità costituzionale, degli impegni internazionali a favore dei diritti umani – tutti i diritti umani da quello alla vita a quello alla morte – non si potrà mai essere ritenuti interlocutori autorevoli o affidabili né portatori di un futuro migliore.

Nei prossimi testi cercherò di entrare nel merito di alcune delle questioni qui evocate recuperando la “giustezza” delle analisi e delle proposte storicamente articolate da Marco Pannella e il suo Partito Radicale e ad alcuni obiettivi raggiunti a livello globale nel tentativo di aggiornarle a un mondo che ha continuato a girare per inerzia grazie all’inedia delle classi dirigenti Occidentali e l’iperattività dei loro (presunti) nemici.