La disponibilità della vita come idea-guida e “slogan” della campagna referendaria

avvio campagna referendaria a Roma

In ogni epoca storica esistono talune idee-guida che hanno la capacità di smuovere le menti e che quando diventano un fenomeno di massa arrivano a modificare il corso della storia. Fra questo tipo di idee spicca, nel mondo moderno, quella di libertà, in nome della quale si sono combattute una serie di storiche battaglie che, con il tempo, hanno mutato la fisionomia della nostra civiltà.

Ciò premesso, sono persuaso che tra le idee che oggigiorno possono maggiormente disporre gli animi a lottare per una sempre più ampia affermazione della libertà e dei diritti civili vi sia quella della disponibilità della propria vita, la quale implica l’attribuzione, alle persone, della sovranità sulle proprie scelte di vita e di morte.

Come cerco di chiarire nei miei lavori, attualmente – in sede filosofica, bioetica e giuridica – si fronteggiano due grandi “paradigmi”, cioè due maniere generali di vedere e concettualizzare la realtà: il paradigma indisponibilista e quello disponibilista.

Mentre il paradigma indisponibilista sostiene che le persone non possono lecitamente rinunciare alla propria vita, considerata dal cattolicesimo ufficiale sempre un bene (“vita semper bonum est” afferma l’enciclica Evangelium vitae) il paradigma disponibilista sostiene al contrario che in determinate situazioni di malattia e di sofferenza la vita cessa di essere un bene, per divenire un male da cui – per  decisione dell’interessato – è lecito congedarsi. E ciò, si badi bene, non solo per mano propria, ma anche con l’intervento o l’aiuto di terzi (come accade nelle pratiche della morte assistita, in cui il terzo è rappresentato dal medico).Tant’è che a monte di tutti i discorsi sul suicidio assistito e l’eutanasia volontaria sta, in primo luogo, il cruciale interrogativo circa la indisponibilità o disponibilità della vita. Interrogativo che – a seconda delle risposte che ad esso vengono fornite – costituisce il presupposto ultimo di tutte le diatribe odierne sul fine vita.

Nel passato, come è noto, è storicamente prevalso il primo paradigma, il quale tra l’altro sta alla base, per ammissione dello stesso legislatore del  1930, degli articoli 579 e 580 del codice penale italiano e quindi del tradizionale divieto di ogni forma di morte assistita. Oggi invece, nelle nostre società, è in forte ascesa il paradigma disponibilista.

Al punto, secondo una mia tesi di fondo – condivisa sin dall’inizio da Marco Cappato – che storicamente e filosoficamente parlando il nostro tempo può essere qualificato come l’epoca della transizione dal paradigma indisponibilista a quello disponibilista. Transizione che, come sempre accade per le grandi “svolte paradigmatiche” della storia, prende corpo in un epocale conflitto fra queste due maniere complessive di rapportarsi alla realtà. Conflitto che non è solo intellettuale e dottrinale, ma anche emozionale e pratico-politico. Da ciò quell’inevitabile intreccio tra filosofia, diritto e politica di cui ho parlato sin dal primo articolo nel mio blog, auspicando il “farsi mondo” della filosofia.

La fiducia nella lenta e tortuosa – ma difficilmente arrestabile – vittoria del (nuovo) paradigma disponibilista sul (vecchio) paradigma indisponibilista si basa sulla convinzione che di questi due paradigmi quello che rispecchia meglio la “mentalità”  delle odierne società avanzate è senz’altro il secondo. Infatti oggi, a differenza di quello che accadeva un tempo, si è sempre più propensi a credere che la libertà e l’autodeterminazione debbano valere non solo nei confronti delle situazioni comuni della vita (la scelta di una professione, di un partner, di una cerchia di amici ecc.) ma anche nei confronti delle situazioni estreme di fine vita. Da ciò la rivendicazione della libertà di fronte alla morte e la lucida consapevolezza, per dirla con Montaigne che «vivere è servire, se manca la libertà di morire».

ll concetto della disponibilità della propria vita può quindi rappresentare una delle idee-forza della campagna referendaria sull’eutanasia promossa dall’Associazione Luca Coscioni, anzi un suo possibile “slogan” di base. Come chiariscono i dizionari, il termine inglese slogan deriva dal gaelico sluaghghairm,che originariamente, per i Celti delle Highland scozzesi, significava “grido di guerra o di battaglia”. Con esso si intende una frase sintetica, orecchiabile e suggestiva (= facilmente memorizzabile e dotata di un forte potere persuasivo). Usato soprattutto in politica e nella pubblicità, come espressione ripetitiva di un’idea o di un progetto, una frase-slogan costituisce quindi, in determinati contesti, una sorta di vessillo o di bandiera.

Pur essendo di matrice filosofica, la nozione di disponibilità della vita ha la prerogativa di poter essere intuitivamente compresa e fatta propria dai milioni di donne e di uomini che cercano di farsi attori responsabili, in tutti gli ambiti, della propria vita. E quindi non solo da coloro che vivono sul proprio corpo le sofferenze di una patologia grave che rende l’esistenza una tortura da cui si vorrebbe fuggire con un decesso volontario, ma anche da coloro che, abituati a programmare la propria vita, ritengono si debba avere la possibilità, quando sarà il momento, di pianificare in libertà il proprio trapasso, decidendo quando e come morire.

Certo, quella dell’eutanasia costituisce una problematica complessa e multiforme, che coinvolge una serie intricata di questioni filosofico giuridiche su cui avremo modo di soffermarci in altri interventi. Tuttavia, essa non può fare a meno di implicare un riferimento preliminare all’idea madre di disponibilità della vita.

Idea su cui ha recentemente insistito, in sintonia con il discorso fatto sinora, anche il penalista Tullio Padovani (il quale parla della “disponibilità del diritto alla vita”) e che ha tutti i numeri, a mio giudizio, per fungere da “idea-guida”, “slogan” e “grido di battaglia” della campagna referendaria.