Fine vita, la chiarezza del diritto

processo cappato

Al processo “Dj Fabo” Marco Cappato è stato assolto con formula piena. Benissimo, era giusto, una battaglia di impegno civile si è conclusa come Costituzione comanda. Per i non tecnici del diritto (ovvero, per la stragrande maggioranza dei cittadini), rimane però un punto oscuro, un dubbio irrisolto. Marco Cappato è stato assolto, scrive la Corte d’Assise di Milano, “perché il fatto non sussiste”.

Ed il cittadino si domanda: il fatto non sussiste? Ma allora per che cosa Cappato si è autodenunciato ai Carabinieri? Perché è stato processato? Per un fatto che non esiste? Chi è del mestiere sa che la formula usata in sentenza è ben comprensibile, dipende dal fatto che la decisione presa dalla Corte Costituzionale può essere interpretata come riduttiva dell’ambito della fattispecie incriminatrice, e per questa via si perviene a ritenere insussistente il fatto-reato ipotizzato in origine.

Si tratta di una interpretazione certamente legittima, quanto è legittima quella diversa che ritengo preferibile – secondo cui la Consulta ha identificato una scriminante, potendosi quindi assolvere perché il fatto non costituisce reato.

Me ne rendo conto: dal punto di vista tecnico, è una discussione che appassiona solo noi giuristi. Dal punto di vista politico, e da quello della comunicazione, le cose possono essere però più complicate, ciò che è giusto non è perciò stesso immediatamente comprensibile. Ok, ci impegneremo anche come divulgatori, va benissimo: sono state tutelate al meglio due persone in gravissima difficoltà, sono stati garantiti i loro diritti.

Ma ecco perché preferisco – in diritto e in fatto – che a Massa Mina e Marco siano assolti perché il fatto non costituisce reato.