Ecco il modello cinese (quello vero) per la lotta alla pandemia

Ecco il modello cinese (quello vero) per la lotta alla pandemia

Nella primavera scorsa si sono lette lodi un po’ dappertutto per il “modello cinese” della gestione del virus  dando ampio risalto alla “generosità” dimostrata da Pechino nei confronti di chi stava affrontando le fasi più acute della pandemia. Come spesso accade tempo e risorse destinate alle “relazioni pubbliche” fanno parte di strategie di distrazione da problemi reali – nel caso della Cina i “problemi” sono sempre gli stessi: una società che cresce economicamente a ritmi inimmaginabili ma che non cede di un millimetro nelle sue politiche autoritarie e liberticide.

Zhang Zhan era già stata arrestata a maggio mentre scriveva da Wuhan, durante le nostre feste natalizie è stata condannato a quattro anni di carcere. Zhan è un ex avvocata e giornalista non professionista di 37 anni arrestata per “aver provocato guai” alla Repubblica Popolare Cinese, un’accusa sistematicamente usata contro dissidenti, attivisti e giornalisti. Secondo la giustizia lampo cinese, con i suoi video e il blog su Wuhan aveva diffuso informazioni false arrivando ad accettare “interviste con Free Radio Asia e Epoch Times speculando maliziosamente sull’epidemia di Covid-19 di Wuhan”.

Il 28 dicembre, poche ore dopo l’inizio del processo, l’avvocato di Zhang, Zhang Keke, ha reso noto che la sua assistita, apparsa in tribunale in sedia a rotelle, era stata condannata a quattro anni di carcere – in quello stesso giorno ha avuto inizio il procedimento penale nei confronti di 10 cittadini di Hong Kong detenuti nella Cina continentale che avrebbero tentato di fuggire a Taiwan. Forse Pechino aspettava la distrazione delle festività per toglier di mezzo persone scomode e l’ha fatto dispiegando un servizio di sicurezza rafforzato che ha tenuto lontano la stampa e i diplomatici che volevano assistere di persona.

Alla vigilia dell’udienza finale, la Zhang era stata alimentata a forza con un sondino perché all’inizio di dicembre aveva iniziato lo sciopero della fame che le aveva fatto perdere quasi 20 kg.

L’imputata ha negato tutte le accuse dicendo che i suoi resoconti su come Wuhan aveva risposto all’epidemia erano basati su racconti raccolti di prima mano della gente del posto e che per questo i suoi video risultavano spesso critici anche nei confronti della segretezza e della censura. Altre volte la Zhang aveva accusato le autorità di violazioni di diritti fondamentali richiedendo il rilascio di altri citizen journalist arrestati per aver raccontato quel che accadeva a Wuhan in quei terribili giorni.

Secondo il Guardian sono almeno una mezza dozzina i citizen journalist, giornalisti non professionisti che son stati presi di mira dalla polizia per aver condiviso cronache da Wuhan: Fang Bin, arrestato a febbraio e detenuto in un luogo segreto; Chen Mei e Cai Wei arrestati ad aprile e in attesa di processo a Pechino per aver archiviato informazioni censurate sul virus; Chen Qiushi, detenuto a Wuhan a febbraio e rilasciato a casa dei suoi genitori tutt’oggi sotto stretta sorveglianza.

L’amministrazione della giustizia cinese è quel che è, per alcuni sicuramente risulterà particolarmente efficiente visto che ha un tasso di condanne di circa il 99%, per altri, quelli che guardano all’efficacia più che all’efficienza del diritto penale, non sfuggirà il particolare che sempre più spesso agli imputati viene negata un’assistenza legale degna di tal nome. 

A maggio di quest’anno Pechino aveva espulso giornalisti della maggiori testate americane accusandoli di aver “fabbricato” informazioni per screditare la gestione della pandemia, una misura restituita dall’Amministrazione Trump. Ancora nel mese di dicembre, le autorità cinesi hanno arrestato un giornalista di Bloomberg, Haze Fan, con non meglio chiarite accuse di attentato alla sicurezza nazionale; sorte simile è toccata all’attivista per i diritti umani Ou Biaofen dopo aver pubblicizzato il caso di un ricovero coatto in una clinica psichiatrica per un militante politico e al giornalista documentarista Du Bin – anche per loro l’accusa era di aver “provocato guai”.

Su alcuni siti è apparsa anche la notizia del posticipo del processo allo scrittore australiano di origini cinesi Yang Henjun accusato di spionaggio e, si dice, torturato durante i due anni di detenzione. Infine, il 27 dicembre, un tribunale ha rigettato la richiesta di appello contro la condanna a quattro anni dell’avvocato per i diritti umani Yu Wensheng che aveva pubblicamente chiesto riforme costituzionali comprese le elezioni con più candidati.

In primavera si sono lette lodi un po’ dappertutto per il “modello cinese” della gestione del virus  e si è dato ampio risalto alla “generosità” dimostrata da Pechino nei confronti di chi stava affrontando le fasi più acute della pandemia. Come spesso accade, il tempo e le risorse destinate alle “relazioni pubbliche” fa parte di strategie di distrazione da problemi reali – nel caso della Cina i “problemi” sono sempre gli stessi: una società che cresce economicamente a ritmi inimmaginabili ma che non cede di un millimetro nelle sue politiche autoritarie e liberticide.

Per questi motivi occorre sempre enorme cautela nell’interagire con Pechino, una cautela dettata dagli obblighi internazionali di agire per il rispetto dei diritti umani di chiunque dovunque, una cautela che, tanto diplomaticamente quanto politicamente, non può far l’economia del “modello cinese”, quello vero.