Disobbedienza civile per l’autocoltivazione di cannabis: quattro anni per un’archiviazione

Quattro anni fa ho portato una pianta di cannabis in Parlamento. Era un’azione di disobbedienza civile.

Nel 2020 l’Italia come il resto del mondo era in lockdown e io, insieme ad altre 2.500 persone, ho preso parte all’iniziativa “Io Coltivo” promossa da Meglio Legale, Associazione Luca Coscioni e decine di altre organizzazioni antiproibizioniste. L’iniziativa prevedeva la coltivazione pubblica di cannabis per uso personale e l’autodenuncia per il fatto compiuto: l’obiettivo era quello di affermare la non punibilità penale della coltivazione ad uso personale e di attirare l’attenzione pubblica sulla necessità di riformare le leggi italiane in materia di cannabis.

Nonostante un divieto del Questore di Roma, nel momento in cui era tornato possibile manifestare in pubblico, il 25 giugno 2020 con la mia pianta fiorita sono andato a Piazza Montecitorio per autodenuciarmi per aver coltivato cannabis. Come previsto sono stato prontamente fermato dalle forze dell’ordine e portato in commissariato da cui sono uscito con due denunce: una per disobbedienza all’autorità (art. 650 cp) e una per aver coltivato la mia pianta (art. 73 Testo unico stupefacenti).

Da quel giorno sono passati quattro anni e solo qualche giorno fa, grazie al lavoro dell’avvocato Raffaele Minieri, siamo riusciti a ottenere la richiesta di archiviazione da parte della Pubblico Ministero al Giudice per le indagini preliminari.

Nella sua richiesta la PM ha dichiarato che non esistono i presupposti legali per procedere contro di me e contro gli altri imputati. In particolare, il provvedimento del Questore di Roma della sera precedente la manifestazione antiproibizionista che vietava il possesso di piante di cannabis durante l’evento per “motivi di ordine e sicurezza pubblica”, è stato ritenuto troppo generico e privo di fondamento legale concreto. Il divieto, infatti, non specificava quali comportamenti avrebbero integrato un reato, né indicava le norme precise che si intendevano tutelare.

Ma c’è di più. Non essendo emersa alcuna evidenza di attività illecita durante la manifestazione ed avendo la mia pianta (e la mia coltivazione) chiaramente un fine di utilizzo personale, non si configurava alcun reato. Qualche mese prima la Cassazione infatti, come in questi anni abbiamo ripetuto senza sosta, aveva chiarito che la coltivazione domestica di un numero limitato di piante coltivate con mezzi rudimentali e destinate all’uso personale non era configurabile come reato.

Questa posizione, confermata dalla giurisprudenza più recente, ha aperto la strada alla richiesta di archiviazione che ora attende solo la conferma del Giudice per le indagini preliminari. La PM ha infatti sottolineato l’infondatezza della notizia di reato, evidenziando l’assenza di elementi concreti per sostenere un’accusa in giudizio.

Quindi cosa rimane di questa iniziativa?

Quattro anni per arrivare ad un’archiviazione in un paese con 6 milioni di consumatori conferma quanto diciamo da anni: perseguire condotte senza vittima intasa il sistema di amministrazione della giustizia per cose che alla fine risultano non essere penalmente rilevanti. Ma la domanda rimane: chi si può permettere assistenza legale per tutto questo tempo? Ciò che rimane sono un grande dispendio di soldi che una persona deve metterci per potersi difendere, di conseguenze personali che se ne ricavano e di costi per la società. Anche per chi non consuma e nulla ha a che spartire con questa pianta.

Per quattro anni il mio fascicolo ha contribuito ad intasare la scrivania della PM che si è dovuta studiare il mio caso e mettersi a lavorare per formulare una richiesta di archiviazione. Con lei hanno lavorato i funzionari del tribunale e un giudice presto verrà scomodato per mettere fine al procedimento con uno sperpero di risorse pubbliche. Oltre a questo dobbiamo considerare lo spreco di tempo ed energie delle forze dell’ordine che per un’intera mattinata hanno inseguito me (e ogni giorno continuano a inseguire persone come me) invece di dedicare il proprio tempo al contrasto della criminalità. Stiamo parlando di un “danno erariale” che gli antiproibizionisti dichiarano da tempo, e non solo ex post, e che dovrebbe essere quantificato come “costo del proibizionismo”.

Le istituzioni e la burocrazia hanno fatto il loro lavoro in questi 4 anni. La responsabilità di ciò che quotidianamente accade non è loro: una legge del 1990 glielo impone, costringendoli a inseguire persone che coltivano senza infastidire nessuno e con l’unico scopo di autoprodursi dei fiori che altrimenti comprerebbero al mercato nero.

Se ci sono delle responsabilità per questo inutile accanimento, non sono penali ma politiche e sono di Parlamento e Governo che continuano e non voler prendere in considerazione delle norme che non hanno minimamente contenuto la presenza delle sostanze proibite in Italia ma che in 30 anni hanno creato problemi quotidiani a oltre un milione di persone!

La mia e la nostra lotta condotta insieme a Meglio Legale e l’Associazione Luca Coscioni è la lotta di chi guardando appena fuori dai confini nazionali si rende conto che la legalizzazione è la strada giusta e per questo, dopo aver presentato in Senato una nuova proposta di legge d’iniziativa popolare a giugno scorso, stiamo tornando a pensare a un referendum.