Contro le strumentalizzazioni pro-life del coronavirus

fotografia funerale laico di Piergiorgio Welby

Secondo alcune letture di orientamento pro-life il Covid 19 avrebbe prodotto un radicale “cambiamento antropologico”. Questo non solo perché il timore del coronavirus ci avrebbe costretto a cambiare modi e stili di vita, ma anche perché avrebbe prodotto una visione del mondo diversa da quella ante-Covid, agendo come un paio di lenti che rimettono a fuoco la vista e ristabiliscono priorità e urgenze. La pandemia, con la sua catena di morti, avrebbe infatti rimesso al centro dell’attenzione pubblica il valore della vita chiarendo, semmai ce ne fosse bisogno, che «vivere è nettamente preferibile a morire».

Nella fattispecie, come attesterebbe la sospensione olandese di nuove pratiche eutanasiche, avrebbe fatto clamorosamente capire che «salvare vite è più importante che terminare vite». In altri termini, il coronavirus avrebbe nuovamente insegnato a dare precedenza alla «cultura della vita» rispetto a quella famigerata «cultura della morte» che, secondo la Evangelium vitae, caratterizza il mondo odierno.

Che tesi di questo genere rappresentino una forzatura della realtà e un constatabile caso di mistificazione ideologica mi sembra evidente.

È chiaro che in generale siamo tutti per la “vita”, come in generale siamo tutti per “salvare vite” dalle malattie. Ciò non esclude però che talora ci si possa trovare di fronte a delle vite che, per esplicita dichiarazione di coloro che le vivono, non sono più autentiche vite, ma soltanto un susseguirsi drammatico di sofferenze non volute. Per usare le toccanti parole di Welby a Napolitano: «Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico … morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita». Parole che possiamo filosoficamente tradurre dicendo che se la vita è un dono, in certe circostanze è la morte ad essere un dono e una “liberazione” (in ciò la filosofia disponibilista e una millenaria saggezza popolare tendono a convergere).

Ne segue che essere a favore della legalizzazione dell’eutanasia volontaria non significa essere contro la vita, ma contro quel tipo di vita che, agli occhi di chi la vive, non risulta più tale e a cui appare quindi preferibile – per esplicita volontà dell’interessato – la morte. Senza che ciò implichi ovviamente una qualsivoglia imposizione di morte nei confronti di coloro che, pur nella sofferenza, in virtù delle loro convinzioni religiose ed etiche, preferiscono continuare a vivere.

Contestualmente, dubito che la pandemia, bloccando temporaneamente le pratiche eutanasiche e i cosiddetti viaggi della morte, abbia “insegnato” all’umanità contemporanea, come sostengono alcuni pro-life, che varrebbe la pena di vivere «in ogni caso» e che le grandi battaglie per un dignitoso fine vita sono ormai qualcosa di obsoleto.

Anche in questo caso, servirsi del Covid 19 per cercare di contenere, in nome di un ipotizzato “bene comune”, una serie di diritti per cui si è faticosamente lottato e per cui si continua faticosamente a combattere si rivela un’operazione strumentale e reazionaria, da cui ogni fautore dei “nuovi diritti” non può fare a meno di prendere criticamente le distanze.

Del resto, poiché tutti, con o senza coronavirus, dobbiamo morire, i problemi di un fine vita dignitoso non possono smettere di interpellare ogni uomo e quindi di essere perennemente “importanti” e “attuali”.

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