Arrivati alla sentenza 242, oltre la 242

Consulta

1 – Il valore civile della sentenza della Corte Costituzionale sul caso DJ Fabo – Cappato: guardiamo la storia degli ultimi 15 anni.

2006: a Piergiorgio Welby viene negato il funerale religioso; Mario Riccio – il suo medico – viene processato (e faticosamente assolto).

2009: Eluana Englaro ottiene di concludere la sua sopravvivenza biologica dopo 17 anni di cause; nei suoi ultimi giorni Beppino si sente dare dell’assassino.

2019: due anni e mezzo dopo la morte di Fabiano Antoniani (e con 11 mesi di rinvio del giudizio costituzionale) la norma per la quale si sarebbe potuto condannare Marco Cappato è cancellata dalla Consulta. Nessuna voce sostiene che Fabiano doveva continuare a soffrire, e che Marco doveva andare in galera.

La cronologia e la reazione sociale dicono quanta strada è stata percorsa, e che il risultato ottenuto è frutto di una lunga battaglia di civiltà. Non è tutto, certamente, ma è stato compiuto un grande passo avanti per coloro che vogliono essere “liberi di decidere”.

2 – Altrettanta strada ha fatto l’interpretazione giuridica della norma.

Secondo i commentari tradizionali, la finalità dell’articolo 580 del codice penale era chiara:

“Il bene tutelato attraverso l’incriminazione è la vita, come bene indisponibile appartenente all’intera collettività”.

Un limite netto, contro l’individuo ed a favore dello Stato, dunque. La Corte Costituzionale non cancella la norma dall’ordinamento, ma vede la questione in termini opposti.

“Il divieto in parola conserva una propria evidente ragion d’essere anche, se non soprattutto, nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane o in solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto”.

Così, testualmente, l’ordinanza 207/2018 della Consulta. Il bene protetto, mediante tutela costituzionalmente legittima, è la persona che deve essere sostenuta nel momento in cui la gravità della malattia la pone in condizioni di fragilità e debolezza.

Tuttavia il malato, cosciente e puntualmente informato, può ricorrere alla sedazione profonda, grazie alla legge 219/2017. Può cioè scegliere un percorso che lo conduca alla perdita di coscienza ed alla morte, mediante l’interruzione delle terapie. Ma allora (è sempre l’ordinanza 207/2018 della Consulta)

“…non si vede perché il medesimo soggetto debba essere ritenuto viceversa bisognoso di una ferrea e indiscriminata protezione contro la propria volontà quando si discuta della decisione di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri, quale alternativa reputata maggiormente dignitosa alla predetta interruzione”.

Due i profili rilevanti: l’equiparazione fra il momento/suicidio ed il momento/morte da interruzione dalle terapie; e la sottolineatura della libertà individuale nella valutazione della scelta “maggiormente dignitosa” per sé. È dunque l’esercizio della libertà del malato a far cadere il divieto penalmente sanzionato di aiuto da parte di altri a morire. Questo contesto giuridico conduce alla sentenza 242/2019.

3 – La Corte Costituzionale pone specifici paletti perché sia lecita l’agevolazione dell’esecuzione del proposito di suicidio: a) il rispetto della procedura di cui alla legge 219 (consenso informato e prospettazione delle cure palliative); b) volontà libera ed autonoma di persona dipendente da trattamenti di sostegno vitale; c) presenza di una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che la persona reputa intollerabili; d) verifica delle condizioni e delle modalità di esecuzione da parte di una struttura sanitaria pubblica, previo parere del comitato etico territorialmente competente.

Non viene statuito un diritto all’aiuto al suicidio: “senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici” recita la sentenza, e ciò esclude il tema dell’obiezione di coscienza. In particolare, va ricordato che il giudizio di legittimità costituzionale era promosso dal giudice penale a fronte di una imputazione, quindi con riferimento alla posizione dell’imputato; non – in ipotesi – promosso da un giudice civile avanti il quale un cittadino avesse agito per vedersi riconoscere il diritto all’aiuto medico al suicidio.

Questa riflessione comporta che si inquadri il percorso nell’ottica della garanzia delle libertà individuali, evitando il rischio di inefficacia della sentenza determinata da inefficienze istituzionali e da obiezioni (autentiche o strumentali), come la storia della legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza (purtroppo) ci insegna.

Preliminarmente, l’illegittimità costituzionale dichiarata non impone che l’aiuto alla esecuzione della volontà di suicidio sia riservato a strutture del Servizio Sanitario Nazionale: preservato pertanto il principio del rapporto fiduciario liberamente voluto dalla persona, con riferimento sia al medico sia alla struttura clinica, è demandata alla struttura pubblica esclusivamente la verifica – che ha carattere documentale – sulle condizioni di liceità, sotto il profilo dell’informazione e della libertà di determinazione, compresa la possibilità di ricorrere alle cure palliative, sulla sussistenza di  una patologia irreversibile che provoca sofferenze fisiche-psicologiche intollerabili (secondo la valutazione soggettiva dell’interessato), con dipendenza da forme di sostegno vitale; previo il parere del comitato etico.

Quest’ultima indicazione ha provocato legittimi rilievi e critiche, in particolare per il carico di lavoro del quale i comitati etici sono gravati, e perché la loro attività è prevalentemente orientata alla valutazione di sperimentazioni mediche.

Tuttavia risulta logico e necessario che – richiesto di un parere su caso specifico, in quanto tale urgente in re ipsa – il comitato etico debba procedere con assoluta priorità (comunque con la possibilità di messa in mora da parte del cittadino richiedente).

Le condizioni mediche previste possono essere valutate documentalmente, così da accertare con certezza scientifica ma senza dilazione la sussistenza dei requisiti indicati dalla Corte Costituzionale.

Sotto il profilo della esecuzione della volontà suicidaria, dalla stessa può essere data preventiva compiuta descrizione scientifica preliminare, che ne consenta la verifica da parte della struttura pubblica, fermo restando l’obbligo della successiva applicazione rigorosamente conforme (del resto, come noto, la legislazione svizzera non prevede la presenza del medico al momento del suicidio). Comunque la presenza e la collaborazione del medico – nella sussistenza delle condizioni richieste – sarà legittima, non censurabile sia penalmente sia deontologicamente.

Come noto, la Consulta aveva rivolto, con l’ordinanza 207, un invito pressante al legislatore affinché intervenisse; ed ha confermato detto invito con la sentenza 242.

Ma, dato il silenzio parlamentare (che può anche interpretarsi, oltre al voler evitare un tema difficile per gli equilibri politici, come una condivisione implicita delle indicazioni date dalla Consulta con l’ordinanza 207, che non poteva che essere – come in effetti è stato – la radice della sentenza dell’anno successivo), appare logico il reiterato richiamo alla legge che costituiva e costituisce l’occasione nella quale si è espressa, su tematiche non identiche ma similari, la discrezionalità del legislatore.

Il richiamo a questa legge consente quindi di pervenire ad un tessuto normativo il più possibile (nelle circostanze date) coerente.

4 – Costituzionalità del “trattamento di sostegno vitale”?

La dizione “persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale” presenta criticità, interpretative ed applicative. Il tema appare nell’ordinanza 207/2018, con il riferimento alla normativa (l. 219/2017) che consente (anche) la sospensione dei trattamenti di sostegno vitale, con sedazione profonda al fine di evitare pesanti sofferenze, ed esito mortale.

L’argomento fa risaltare l’incostituzionalità (in allora, accertata ma non dichiarata) di una sanzione penale che inibisse al malato di ricorrere ad un aiuto materiale per giungere all’identico effetto, ma in un modo più rispondente ai propri convincimenti valoriali. Del resto, nell’ordinanza è esplicita la considerazione del caso specifico, dovendosi valutare le “situazioni come quelle del giudizio a quo”, e si dà un’esemplificazione dei trattamenti che possono essere sospesi (ventilazione, alimentazione, idratazione artificiali).

Il tema appare problematico sotto alcuni profili.

In primo luogo, la legge 219/2017, che la Consulta utilizza sistematicamente quale sponda argomentativa, consente anche, ma non solo, il diritto al rifiuto o alla sospensione (totale/parziale) dei trattamenti di sostegno vitale, ma prevede il diritto al rifiuto o alla sospensione (totale/parziale) di qualsiasi trattamento medico, a prescindere dalle condizioni del paziente (art. 1.5), salvo il diritto di questi alla piena informazione. È noto infatti il caso della persona – capace, libera ed informata – che coscientemente ha scelto di morire rifiutando di sottoporsi all’amputazione di una gamba colpita da cancrena.

In secondo luogo, “trattamento di sostegno vitale” è definizione elastica, in progressiva elaborazione in base agli sviluppi della scienza.

L’evocazione del concetto sembra essere posta a presidio della rigorosa circoscrizione dell’ambito di liceità (rectius: di esclusione della punibilità) dell’aiuto materiale al suicidio come deciso nella sentenza 242. Ciò, presumibilmente, anche sulla base della considerazione – inespressa, ma immediata – che chi non è nelle drammatiche condizioni di Piergiorgio Welby o di Fabiano Antoniani può decidere ad attuare il proprio suicidio senza ricorrere ad aiuti materiali.

Rimane però una zona grigia che deve essere affrontata.

Già proprio il caso Welby non si concretizzò nel mero “staccare la spina” della ventilazione, ma fu necessario un intervento medico (farmacologico) per evitare che la morte sopravvenisse dopo ulteriori pesantissime sofferenze.

Così può darsi il caso di persone nelle precise condizioni indicate dalla Consulta ma che non dipendono, nell’immediatezza, da un trattamento di sostegno vitale per sopravvivere. Del resto, lo stesso Fabiano Antoniani aveva la possibilità di essere staccato – per breve periodo – dalla ventilazione artificiale.

Dunque, delle due l’una: o, come appare preferibile, va data un’interpretazione costituzionalmente orientata della statuizione della Consulta, ritenendola applicabile alle situazioni in cui comunque (oltre alle altre condizioni previste) il paziente necessiti per vivere di terapia medica costante la cui sospensione (legittimamente disponibile ex lege 219/201) comporterebbe la morte; altrimenti si dovrebbe ritornare alla Corte, non essendo legittima la discriminazione in danno di chi (secondo una interpretazione meccanicista delle statuizioni della sentenza 242) versa nelle identiche condizioni mediche, ma non dipende nell’immediatezza, per la propria sopravvivenza, dall’essere materialmente attaccato ad una macchina.

Il caso Trentini, fra poco in discussione avanti il Tribunale di Massa, proporrà appunto questa tematica.

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Riflessione finale obbligata: proprio sulla base della decisione della Corte Costituzionale, ed attuandone il forte e ribadito monito, la necessità di una legge sull’eutanasia è di immediata evidenza.