Anche per le terapie a base di principi attivi della Cannabis usare il metodo scientifico

Periodicamente si leggono notizie incoraggianti o allarmanti sull’uso terapeutico di preparazioni a base di Cannabis

Una di queste ultime, che apparirà a inizio del 2023 su una popolare rivista di attualità, riguarderebbe i rischi cardiovascolari di tali preparazioni. Qualunque farmaco ci viene prescritto e ritiriamo in farmacia, ha subito un lungo processo di indagine in fasi sperimentali cliniche: nella fase I se ne studia la tossicità. Se quest’ultima ha dato risultati incoraggianti (cioè ha mostrato che il farmaco in sperimentazione è poco o punto tossico per i pazienti) si passa alla fase II. In quest’ultima, si fa una prima valutazione di possibile efficacia su limitati numeri di pazienti. Essendo preliminare, la fase II dà necessariamente risultati non definitivi ma indica solo se possa valere la pena indagare ulteriormente.
Se quest’ultimo è il caso, si passa alla fase III, dove si fanno le cose in maniera tale da avere risposte per quanto possibili solide: elevati numeri di pazienti trattati (almeno centinaia, spesso migliaia), altrettanti pazienti di “controllo” [cioè simili per età, sesso ed altre caratteristiche a quelli che assumono il farmaco ma in realtà prendono solo una semplice caramellina (placebo)]. Se anche in fase III si osserva un beneficio significativo per i pazienti che assumono il farmaco rispetto a quelli che prendono il placebo, i dati vengono accuratamente valutati dall’Agenzia
Europea dei Medicinali (EMA) che può ritenerli sufficienti, non sufficienti o con necessità di integrazione ai fini dell’immissione in commercio.

Tale valutazione viene ripetuta anche dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), che opera indipendentemente da EMA. Se tutti questi passaggi sono stati superati, il farmaco può essere immesso in commercio ed il nostro medico valutare se ci possa davvero essere utile e prescriverlo. A questo punto inizia il nostro compito di pazienti. Se traiamo almeno in parte un beneficio simile a quello che avevano avuto le migliaia di pazienti studiate in fase III; se non ne traiamo alcuno come più raramente succede; o addirittura notiamo uno o più effetti negativi non descritti dal foglietto illustrativo (come molto più raramente accade; suggerirei però di abbandonare il termine “bugiardino” che affermando l’inaffidabilità del foglietto, è esso sì un termine bugiardo); ne potremo parlare con il nostro medico o il nostro farmacista che potrà decidere se sia il caso di comunicare quanto li/le viene riferito dai propri pazienti agli Enti Regolatori EMA e AIFA.
È quest’ultima la fase IV, cosiddetta di farmaco vigilanza, che essenzialmente non ha mai termine fino a quando il farmaco rimane in commercio. Ad essa, tutti noi pazienti dobbiamo collaborare con fiducia, affinché gli effetti del farmaco sulle diverse patologie per cui è prescritto siano conosciuti con sempre maggiore completezza ed il suo rapporto costo/beneficio valutabile con sempre maggiore precisione.
Nel caso dei diversi componenti attivi contenuti nella Cannabis, tutto questo processo di validazione nel nostro Paese non ha potuto avere luogo. Nonostante da più di 5 anni la legislazione abbia autorizzato l’uso della Cannabis medica e istituito a Firenze il centro nazionale di produzione delle infiorescenze, l’Italia è ancora tra gli stati dove non hanno potuto essere condotti studi clinici. Questo divario è dovuto a molteplici restrizioni legali sull’approvazione e sulla conduzione di studi clinici su farmaci a base di componenti attivi della Cannabis che altrove (p.es. Stati Uniti, Olanda, UK) non sussistono.
È difficile credere che alla base di tali divieti nostrani non vi siano considerazioni ideologiche, piuttosto che scientifiche, visto che attualmente possono esserci prescritti farmaci con potenza psicotropa ben più alta di quella dei principi attivi della Cannabis.
Sempre a causa di considerazioni che di scientifico hanno poco, anche nel caso in cui le restrizioni legali per l’approvazione di studi clinici su farmaci a base di componenti attivi della Cannabis fossero superate, la conduzione di questi ultimi si scontrerebbe ulteriormente con una perdurante difficoltà a reperire la materia prima vegetale, di cui vi è sempre carenza.
Il risultato sono terapie che sulla nostra popolazione (che, come tutte le popolazioni, ha le proprie specificità) non sono mai state oggetto di sperimentazione clinica adeguata e non sono mai entrate nel solo percorso che ci può dare risposte solide: quello basato sul metodo scientifico che viene utilizzato per qualunque altro farmaco.