All’interno della categoria malati mentali c’è un’eterogeneità tale da non permettere categorizzazioni al di fuori di strette correlazioni con la Medicina e con la Cura. Io faccio parte, per esempio, della categoria “malati oncologici” perché sono in follow up per un melanoma maligno. Certamente sono distante da chi, per esempio, sta curandosi da un carcinoma prostatico e sta facendo chemio o radar terapia.
Se ci chiediamo quali siano le persone che hanno avuto esperienza di malattia e potrebbero dire la loro per un miglioramento dei trattamenti e della cura, allora direi tutti quei pazienti che hanno avuto almeno un contatto coi servizi, il reparto, l’ambulatorio, strutture riabilitative, per un periodo o corto o lungo che sia stato, soprattutto quelle persone meno colpite dalla malattia. Parto dall’idea che tutti i pazienti diventati esperti per esperienza diretta entro un percorso sanitario, anche minimo, possano essere una risorsa per suggerire miglioramenti nell’organizzazione di quel reparto, di quell’ambulatorio, migliorare la modalità di approccio con la persona e coi familiari, eccetera.
In molte Ulss ci sono programmi, accreditati dalle Regioni, di cosiddetta umanizzazione delle cure, che secondo me dovrebbe tenere in massimo conto la parte interessata, cioè chi ha usufruito di quelle cure, tralasciando le necessità tecniche, professionali o alberghiere del contesto sanitario (vedi brochure informative dei reparti che spesso sono l’esito dei cosiddetti programmi di umanizzazione).
Far partecipare gli interessati del servizio è un principio fondamentale della medicina basata sull’innovazione, in cui l’indicatore è il numero di progetti condotti con la collaborazione dei pazienti. Sono riportati esempi d’innovazioni nel campo della Pediatria (vedi Alberto Tozzi, responsabile Innovazione e Percorsi Clinici, Ospedale Bambino Gesù, Roma) indotti proprio dai bambini, diventati esperti di come ricordarsi di prendere una medicina o inventarsi motivazioni simpatiche per quell’esame fastidioso.
Far partecipare i pazienti significa avere dati accessibili dai pazienti stessi, cartelle cliniche leggibili, traducibili, eccetera, insomma per certe realtà italiane siamo molto lontani. Nell’ambito della Salute mentale si apre un ventaglio enorme di persone che diventano esperte per esperienza.
È nel compito stesso di un Dipartimento di Salute mentale interessarsi della salute mentale nei suoi vari aspetti, anche preventivi. Nel ventaglio delle prestazioni si va da una prima valutazione psichiatrica e psicologica e testistica per escludere la presenza attuale di patologia, (solo monitoraggio dell’evoluzione) fino alle frequentazioni quasi continuative in reparti, riabilitative, comunità, case di cura, di persone che dopo anni e anni non hanno trovato miglioramento alle loro sofferenze più o meno immutabili nel tempo.
Tutte le persone che hanno avuto almeno un contatto significativo con la Psichiatria potrebbero partecipare utilmente nei progetti di miglioramento, se fossero previsti dei canali organizzati. Negli ultimi anni il prevalere biologistico ha allontanato sempre più il paziente e il familiare dalla scena di cura, si è venuto rimpicciolendo lo spessore sociale, psicologico, della problematicità del vivere quotidiano e ha preso il sopravvento la modalità medico farmacologica del trattamento.
Ci stiamo abituando a questo, ma nel paese di Basaglia, la cura psichiatrica non si deve ridurre a questo aspetto eminentemente farmacologico ospedaliero. Senza entrare nei dettagli, ritengo, in sintesi, che in molti aspetti della cura l’esperto d’esperienza possa dare una potente mano nell’approcciare un paziente difficile, nella motivazione di un percorso di cura o riabilitativo, nell’evitare TSO, nella difesa della ragioni del paziente ostile (aspetto importante per poter trasformare i conflitti in risorsa), nel miglioramento dell’organizzazione, eccetera eccetera, ma ritengo che rappresentanze di pazienti debbano essere presenti (e pesare) laddove si decidono organizzazione, distribuzione delle risorse, programmi finalizzati, priorità di intervento, eccetera.
Molte attività cosiddette informali gestite dai pazienti stessi risultano di grande aiuto per gli altri, per i pazienti difficili, poco responsivi, o per i futuri pazienti, aumentando anche la capacitazione (empowerment) personale.
Perché non allargare allora queste possibilità ad una partecipazione ancor più responsabile e collettiva? E soprattutto perché non allargarla alla partecipazione di utenti con minori prestazioni a carico e certamente capaci di aver fatto tesoro della loro esperienza e di dare suggerimenti su aspetti gestionali importanti?
Qualcuno penserà che è un’idea da matti. È un’idea che induce certamente, invece, a pensare a necessità organizzative di partecipazione che potrebbero farci riflettere, proprio dopo le esperienze sulla pandemia, sul valore del bene collettivo della salute e sulla necessità di condivisione estesa di scelte gestionali importanti. Che nei “piani alti” sia presente qualche paziente psichiatrico che ho conosciuto e che dia il suo contributo in qualità di esperto per migliorare le cure, nei suoi variegati aspetti, dal primo approccio con chi sta male sino alle scelte economiche di gestione di un Centro di Salute mentale, è un’immagine che mi fa ben sperare e che sottointende un necessario e salutare esercizio di umiltà da parte degli psichiatri.
Diego Silvestri è medico psichiatra, in pensione dal 2021. Ha lavorato presso strutture sanitarie pubbliche in Veneto dove ha ricoperto anche ruoli di responsabilità. È stato professore universitario nella facoltà di Infermieristica a Verona e docente per diversi anni nei corsi per operatore socio sanitario. Presidente della cellula Vicenza Padova. Fa parte del gruppo di lavoro che gestisce il Numero Bianco ed è consigliere generale dell’Associazione Luca Coscioni