Civiltà cattolica e suicidio assistito

L’apertura, da parte di “Civiltà cattolica”, alla proposta di legge sul suicidio assistito e l’invito, rivolto ai politici, a non “affossarla” è qualcosa di significativo Infatti, per chi ha presente i documenti della Chiesa circa la categorica illiceità non solo morale, ma anche socio-giuridica, dell’aiuto al suicidio (assimilato a un comportamento intrinsecamente cattivo che “mai” “nessuno” e “per nessuna ragione” è autorizzato a compiere) un discorso come quella del gesuita Carlo Casalone, docente di teologia morale alla Gregoriana e membro della Pontificia Accademia della Vita, non può fare a meno di costituire una “novità”.

Tant’è che il suo articolo ha subito suscitato una reazione di sdegno da parte di parecchie associazioni cattoliche portate a scorgere, nella legge in questione, una manifesto “tradimento” della dottrina tradizionale del Magistero. Ossia di quella posizione di pensiero che fa notoriamente leva sulla basilare tesi della “indisponibilità” e “inviolabilità” della vita. Tesi – è bene sottolineare questo concetto non sempre debitamente evidenziato – secondo cui ‘uomo non può lecitamente sbarazzarsi della propria vita, né per mano propria (suicidio) né con la cooperazione di terzi (come avviene nel suicidio assistito e nell’eutanasia volontaria). Da ciò l’esplicito rifiuto, che viene sostenuto a chiare lettere anche dal documento Samaritanus bonus – emesso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e firmato dal papa – di ogni forma di complicità o collaborazione alla morte anticipata.

Lo stesso Casalone rileva come il ddl di cui egli auspica l’approvazione «diverga dalle posizioni sulla illiceità dell’assistenza al suicidio che il Magistero della Chiesa ha ribadito anche in recenti documenti». Da ciò l’innegabile “strappo” rappresentato dal suo intervento.

Tuttavia, dal punto di vista dottrinale, il suo articolato discorso è meno rivoluzionario di quanto potrebbe sembrare a prima vista, poiché l’aiuto al suicidio, sul piano etico, continua ad essere ritenuto un comportamento negativo (un “male”). Come attesta il passo in cui egli scrive che «sostenere questa legge corrisponde non a operare il male regolamentato dalla norma giuridica, ma purtroppo a lasciare ai cittadini la possibilità di compierlo». Anche se in base alla pluralistica accettazione, per usare le parole di Francesco, della “diversità delle visioni del mondo, delle convinzioni etiche e delle appartenenze religiose” e in nome del “bene comune” esso viene giuridicamente e politicamente ammesso.

Infatti, la domanda che si pone Casalone è, in estrema sintesi, se di questa proposta di legge occorra dare una valutazione complessivamente negativa, con il rischio di favorire la liberalizzazione referendaria dell’omicidio del consenziente, oppure si possa cercare di renderla meno problematica modificandone i termini più dannosi. In altri termini, la sollecitazione ad intervenire sarebbe motivata dalla volontà di porre un “argine” di fronte a un eventuale danno più grave. Parere, quest’ultimo, condiviso dal costituzionalista Giovanni Maria Flick, il quale in una intervista rilasciata al quotidiano Avvenire ha dichiarato senza mezzi termini che «non intervenendo si rischia di spianare la strada ai promotori del referendum».

Il carattere eminentemente pratico-politico e da “ultima spiaggia” dell’operazione di questo gesuita – volta a salvare il salvabile e a scongiurare il pericolo di un referendum finalizzato a introdurre l’eutanasia legale in Italia – risulta quindi evidente. Come ha condivisibilmente affermato il deputato di +Europa Riccardo Magi: «Che Civiltà Cattolica auspichi l’approvazione di una “legge imperfetta” per evitare la via referendaria all’eutanasia può essere comprensibile ma che si esprimano in scia esponenti parlamentari lascia pensare che siano partite le grandi manovre antireferendarie».

Tutto ciò, a mio giudizio, non deve però far perdere di vista un aspetto importante: ossia che l’ articolo di Casalone costituisce pur sempre un documento del fatto che di fronte al problema specifico dell’assistenza al suicidio – e a quello più generale della “disponibilità” della propria vita– vi sia, da parte di taluni esponenti del mondo cattolico, un atteggiamento meno graniticamente ostile di un tempo. Atteggiamento che potrebbe prossimamente portare a un dibattito foriero di nuove aperture anche sul piano dottrinale.

“Aperture” di cui sono stati profetici portavoce quei teologi (come Küng) che si sono mostrati favorevoli ad una parziale accettazione del paradigma della disponibilità della vita e quindi della dottrina secondo cui – in certe circostanze e a determinate condizioni– diventa lecito aiutare qualcuno a congedarsi dalla vita.

Fermo restando che accogliere una simile prospettiva non significa porsi al di là della dicotomia indisponibilità o disponibilità della vita (che a dispetto di tutti coloro che cercano da tempo di sbarazzarsene rimane inaggirabile e fondativa) ma accogliere una, sia pur misurata, prospettiva disponibilista.