Nel saltare i ringraziamenti preliminari e il ricordo dei 10 anni dell’impegno della Coscioni, devo sottolineare che quando ci si incontra, gli spunti che vengono fuori sono continui.In queste due ore avrei già tante proposte e commenti sugli interventi, però voglio attenermi a quello che era il mio intervento.

Cerco di presentare- e mi riallaccio a quello che ha detto il Prof. Veronesi che è sempre chiaro e chiarificatore nei suoi interventi-qual è la situazione oggi nel nostro paese dal punto di vista pratico clinico, sul tema dei testamenti di vita, le direttive anticipate, non le dichiarazioni come dice il famigerato testò Calabrò.Perché il termine “dichiarazioni” non ha alcun valore. Infatti sappiamo tutti qual è l’inganno linguistico della proposta Calabrò.

Nel 2008 l’Istituto Mario Negri, di cui non ho necessità di ricordare l’ importanza e la validità, in uno studio che ha fatto presso le terapie intensive degli ospedali italiani, ha evidenziato che 8 pazienti su 10 al momento del ricovero in rianimazione non sono capaci di intendere e volere, quindi 8 volte su 10 il paziente ricoverato in terapia intensiva è un paziente “non competent” come si dice nei paesi anglosassoni.

Anche se l’opinione pubblica è convinta che in terapia intensiva arrivano soltanto i pazienti acuti,cioè quelli che improvvisamente si trovano in una condizione di defaillance delle funzioni vitali principali,in verità in terapia intensiva giungono molti pazienti non acuti ma cronici che hanno cioè avuto un ulteriore peggioramento delle loro condizioni.

Questi pazienti sono quasi il 50% cioè persone che avrebbero dovuto conoscere la loro patologia e questo è un punto fondamentale della questione.

Il condizionale è d’obbligo perché noi non sappiamo se questi pazienti conoscevano la loro patologia e ma sopratutto la evoluzione della stessa. Abbiamo appena sentito la testimonianza di chi ha scritto all’Associazione Luca Coscioni e mi sembra un paziente informato delle sue condizioni. Noi non sappiamo se questo paziente conosceva o no le sue condizioni che sicuramente l’avrebbero portato in quella condizione che l’ha condotto in terapia intensiva e qui cominciano i problemi.

Potrei citare pazienti -tra loro assai differenti- che erano a conoscenza delle loro condizioni di salute ed hanno pertanto potuto scegliere prima di trovarsi in quella situazione clinica che li ha condotti in una terapia intensiva, attaccati a un ventilatore, in uno stato di incompetence. Possiamo cominciare con Luca Coscioni, il nome che noi oggi celebriamo qui, che decise di non essere sottoposto a nessuna terapia, in particolare quella ventilatoria.O possiamo ricordare un caso che ha creato una polemica; come Papa Wojtyla, la cui patologia -il parkinson- sicuramente avrebbe potuto condurlo in una terapia intensiva.Parliamo di  Piergiorgio Welby, che sapeva che la sua patologia lo avrebbe condotto a una insufficienza respiratoria ed ha accettato una terapia per 10 anni. Ricordiamo ovviamente il Cardinale Martini, pazienti che hanno deciso di non andare in ospedale, pazienti che hanno deciso di non essere collegati con un ventilatore, ma non sempre i pazienti sono così ben informati

Molto spesso noi ci troviamo di fronte alla mancanza di informazione del paziente e l’informazione sulla patologia è il dato fondamentale per potere esercitare o meno il proprio consenso. E questa situazione è assolutamente costante nella nostra quotidianità. Poi ci sono altri aspetti importanti, nel decreto Calabrò si parla della nutrizione artificiale che è stata esaltata e magnificata, come se fosse l’ultimo baluardo prima della morte di un paziente.In verità quando si è ricoverati in un ambiente intensivo,tutte le terapie che si ricevono, sono forme di supporto vitale.Non si capisce allora come mai la nutrizione artificiale è considerata -nella proposta di legge Calabrò- come unica forma di sostegno vitale e pertanto irrinunciabile.

E perché allora non la ventilazione, la dialisi, la trasfusione di sangue o la terapia antibiotica ?

E’ difficile oggi parlare di una morte naturale, non c’è nulla di naturale in questa morte.La nutrizione artificiale non è l’unico baluardo che impedisce a questi pazienti di morire.

Volevo parlarvi di numeri.In Italia ci sono 150 mila ricoveri in terapie intensiva in area critica all’anno, di questi 30 mila pazienti muoiono.Di questi 30 mila, 16 mila, il 60%, sono pazienti che muoiono in seguito alla decisione clinica di non iniziare, interrompere o ridurre una terapia, ma non solo la terapia nutrizionale, ultima preoccupazione del medico.

Questi pazienti muoiono perché si decide insieme ai parenti ma in assenza, in questo momento ,di un testamento di vita.Ma si decide ricostruendo la volontà del paziente e la condizione clinica.Si decide di non iniziare o ridurre la terapia ventilatoria, o di non continuare la terapia dialitica, di sospendere gli antibiotici o la nutrizione artificiale.

In questo tipo di paziente -dove le decisioni vengono prese dai medici con i parenti- molto spesso noi scopriamo che questo paziente non era a conoscenza della sua condizione,mentre lo erano i suoi parenti. Questo perché il paternalismo medico -di cui parlava il Prof. Veronesi – è ancora imperante nei nostri ospedali. Il medico ancora oggi molto spesso non parla con il paziente. Non tutti i pazienti sono come il Cardinale Martini che sapeva che sarebbe andato incontro alla insufficienza respiratoria e prima di morire soffocato ha detto: sedatemi. Qualcuno ha paragonato questo all’ eutanasia, io non l’ho paragonato all’eutanasia, nessuno dice che Martini è morto per eutanasia.Lui è morto per la sua patologia, lui ha scelto di non andare in ospedale, di non essere collegato a un respiratore, ha scelto di essere sedato come Piergiorgio Welby, quando la insufficienza respiratoria l’avrebbe portato ad una sofferenza perfettamente inutile.

Lì andrebbe a inserirsi l’importanza di una direttiva anticipata. E sono ovviamente d’accordo invece con Silvio Viale quando dice che bisogna fare chiarezza tra eutanasia e sospensione dei trattamenti. Il Cardinale Martini chiarì questo al mondo cattolico, e dobbiamo riconoscere che i radicali hanno fatto questa operazione di chiarimento,presentando una proposta di legge sulla eutanasia ben distinta dal discorso dei testamenti di vita.Questo è un punto importante perché è su queste confusioni che una certa parte politica gioca per potere fare credere che sia tutto un calderone unito. Assolutamente no.

In Italia, dei famosi 30.000 pazienti che muoiono in terapia intensiva, 16.000 pazienti muoiono in seguito a quella decisione clinica che noi chiamiamo “desistenza terapeutica”.Cioè l’interruzione di una terapia già iniziata o la decisione di non iniziare una terapia; sono ben 16.000 pazienti all’anno! Ci sono quindi 16.000 atti autanasici in Italia all’anno, 43 al giorno? No. Ci sono quindi 16.000 casi Welby, Englaro o Martini all’anno?  In un certo senso sì! Provocatoriamente possiamo dire che ci sono 16.000 casi Welby – Englaro all’anno di pazienti a cui si sospende la terapia, come nel caso Englaro o nel caso Welby.

Io che lavoro in un ambiente di rianimazione e che giustamente vorrei vedere separate le due cose, chiarite e separate, io sono favorevole alla possibilità di una legge sull’eutanasia.Penso che sia l’indirizzo verso il quale comunque le società occidentali sono orientate.Non so quando, non so se vivrò abbastanza a lungo per vedere in Italia una legge sull’eutanasia, ma sono favorevole all’atto eutanasico, però questo non deve essere confusa con una grande battaglia, che Welby ha fatto come battaglia.

Ci ricordiamo come era il clima prima della morte di Welby? C’erano addirittura illustri giuristi che dicevano che non era possibile interrompere una terapia. Io ricordo di essere andato in incognito- un mese dopo la morte di Welby- in una importante università lombarda, in occasione di un congresso dove un cattedratico di diritto penale-non era certo il Prof. Veronesi !- diceva: “io ho grande simpatia per il dottor Mario Riccio, ma non potrà che essere condannato per omicidio del consenziente”.

Questo è stato il punto della battaglia, quello di chiarire che le terapie  si possono, a volte si devono sospendere e il paziente ha questo diritto. Il paziente può esprimere un diritto. Ma se non può più esprimerlo perché 8 pazienti  su 10 che entrano in terapia intensiva non sono più capaci di intendere e volere,allora in quella situazione-peraltro molto diffusa- si colloca la necessità di un testamento di vita.