Ringrazio l’Associazione per avermi dato la possibilità di far conoscere a tutti questa storia, questa triste storia che si è svolta a Viterbo. Viterbo sì, in quella stessa Università dove Luca Coscioni aveva iniziato a lavorare alcuni anni fa. Ebbene, io ho intitolato questo mio intervento “Ricerca in agricoltura: come lo Stato distrugge trent’anni di lavoro realizzato con fondi pubblici”. Uno spreco di denaro pubblico, di umiliazione dei ricercatori e anche di condizionamento della ricerca pubblica. Avrei voluto raccontarvi una storia positiva; comunque una nota positiva ci sarà a breve, in quanto sono entrato in questa aula come osservatore e uscirò sicuramente non solo arricchito culturalmente e umanamente ma anche come nuovo iscritto a questa Associazione; non solo per riconoscenza a Luca, ma per una certa condivisione di idee con questa Associazione.

Inizio col mostrarvi l’ingresso del campo sperimentale dell’Università degli studi della Tuscia, sembra un lager ma in realtà è solo un cancello di una recinzione con filo spinato e rete che abbiamo voluto noi perché fosse più sicuro, anche se le leggi del 1998 sulla sicurezza relativamente agli OGM non lo prevedevano. All’interno venivano sperimentate circa 350 piante arboree da frutto, incluse le prime piante arboree trasformate nella storia delle piante transgeniche con geni potenzialmente utili all’agricoltura, risalenti agli anni ’80 dello scorso secolo.

Il lungo elenco dei genotipi presenti e geni utilizzati per la trasformazione genetica è la prova della complessa sperimentazione che veniva fatta all’interno di questo campo, una ricerca molto articolata, su diverse specie, dall’actinidia, sia maschio che femmina, a portinnesti di ciliegio, olivo, e in passato anche fragole. L’obiettivo principale era quello di ottenere piante con una mole ridotta, per facilitare le operazioni agronomiche al fine di ridurre i costi di produzione e diminuire i rischi sul lavoro; piante resistenti a diverse patologie, che non avessero bisogno di trattamenti fitosanitari; piante resistenti alla siccità, per ovviare ai problemi connessi alla carenza di acqua. Tutti temi di ricerca molto attuali e obiettivi difficili da raggiungere in tempi brevi con le tecniche di miglioramento genetico tradizionali.

In questo campo non ha mai fatto il suo ingresso un prodotto chimico (pesticidi), l’unico prodotto chimico è stato usato per ordine dello Stato italiano, il 12 giugno 2012 , per essiccare le piante e col quale ha avuto inizio la distruzione del campo e che terminerà con l’incenerimento di tutte le piante estirpate. E’ un campo sperimentale evidentemente sfortunato, nato forse sotto una cattiva stella, perché in passato, nel 2002, quando erano in corso esperimenti su fragole resistenti a varie malattie, la prova è stata completamente distrutta a seguito di una incursione di un gruppo di no-global, compromettendo, di fatto, tutto il lavoro svolto fino a quel momento, visto che la sperimentazione, per impossibilità di trovare fondi pubblici non è stata ripristinata. Diciassette persone appartenenti ai no-global sono finite in tribunale e successivamente condannate, ma l’Università non ha ricevuto nemmeno un euro di risarcimento per i danni subiti, perché il danno è stato giudicato di “lieve entità” (solo qualche decennio di lavoro!).

Com’era nata questa sperimentazione di campo? Dietro c’è la storia di 30 anni, tra laboratorio, serra e campo, della nostra ricerca, della ricerca pubblica. Nel 1998-99 era stata autorizzata dal Ministero della Sanità per 10 anni. Alla scadenza l’Università ha chiesto una proroga, che non è stata concessa, per due motivi, motivi che non sono certo dipesi dalla nostra responsabilità: 1) la Regione non aveva individuato i siti di sperimentazione e ancora non lo ha fatto e 2) il MiPAAF, Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, non aveva approvato i protocolli di sperimentazione ed ancora non lo ha fatto. In verità uno solo dei Ministri che si sono succeduti nel tempo aveva fatto un tentativo facendo pressione sulla Commissione competente per far approvare i protocolli, ma i rappresentati della Regioni, adottando la tecnica dell’ostruzionismo, sono riusciti a non farli approvare, che secondo le direttive europee gli Stati membri li avrebbero dovuti approvare entro l’anno 2007 (direttiva europea 2001/18), assieme ai piani di coesistenza delle colture ad opera delle Regioni o, in caso di inadempienza di queste ultimi, li avrebbero dovuti approvare gli Uffici delegati ai Poteri Sostitutivi dello Stato.

Alla lettera di diniego l’Università ha chiesto di riconsiderare tale rifiuto, in quanto riteneva immorale vanificare un lavoro poliennale, costato tanti sacrifici e tanto denaro pubblico (diverse centinaia di migliaia di euro) e soprattutto perché le due ragioni sopracitate non erano altro che inadempienze dello Stato italiano che di proposito non aveva accolto l’invito della UE a porre in atto i due regolamenti. Senza dimenticare, inoltre, che dieci anni sono tempi piuttosto ristretti per sperimentare piante arboree, ma tutto questo non è valso a nulla. A maggio scorso, una fondazione privata, la Fondazione dei Diritti Genetici, minacciava i due Ministeri e la Regione Lazio di procedere per le vie legali se non avessero imposto la dismissione del campo sperimentale, dal loro punto di vista ritenuto illegale, suggerendo tuttavia di fare alcuni rilievi nell’ambiente circostante.

Il Ministero dell’Ambiente non ha esitato un momento ad eseguire gli ordini e immediatamente ci ha intimato l’espianto, ma non ha tenuto conto dell’invito, evidentemente almeno questo non lo ha ritenuto un ordine, cioè quello di permetterci di raccogliere i dati nell’ambiente circostante, dati che avrebbero aiutato noi ricercatori ad aggiungere ulteriori conoscenze alla nostra sperimentazione, considerato che il campo sperimentale era stato progettato anche con questo obiettivo, non solo quindi per valutare l’espressione dei geni introdotti ed eventualmente per un possibile impiego in agricoltura delle piante modificate. La lettera del Ministero dell’Ambiente era perentoria : “…. data l’urgenza di espiantare, non c’è tempo di fare ulteriori ricerche”. Ci chiediamo che Ministero è un Ministero dell’Ambiente che non si interessa di conoscere eventuali modificazioni apportate da queste piante all’ambiente circostante in una situazione una occasione unica e irripetibile come questa? L’intimazione è stata ricevuta il 1 giugno e il 12 giugno lo scempio dell’espianto ha avuto inizio. Ci stiamo ancora chiedendo i motivi di questa urgenza a distruggere una sperimentazione che era lì ormai da oltre dieci anni ed era stata concepita in maniera attenta e scrupolosa, con molte specie da frutto, con molti geni d’interesse, e per lo studio dell’interazione con altre piante circostanti, insetti, microrganismi del suolo e della superficie delle foglie, la diffusione di polline e cosi via. Inoltre i geni utilizzati erano geni che già le piante avevano nel loro corredo genetico (noi non abbiamo fatto altro che potenziare la loro espressione). Addirittura alcune piante erano state costituite con geni di un agrobatterio (A. rhizogenes) che opera spontaneamente le trasformazioni genetiche in natura, tanto che piante trasformate con i suoi geni (gli stessi usati per i nostri esperimenti) si possono trovare in natura, sebbene in quantità limitatissima, perchè sono poco competitive nell’ambiente, ma noi avevamo intuito un possibile loro utilizzo in agricoltura come portinnesti. Per queste piante era stata chiesta una deroga, perché secondo la nuova legislazione europea (anno 2002) a nostro avviso non erano da considerarsi transgeniche. Anche in questo caso il Ministero dell’Ambiente, data senza aver consultato una commissione competente, è stato inflessibile: “…siccome nel 1998 le avevate etichettate transgeniche, per il Ministero sono transgeniche”. A sostegno di una concessione di proroga si aggiunge il fatto che erano stati rispettati minuziosamente i protocolli di sperimentazione (vedi verbali degli ispettori regionali) e la Regione Lazio affermava che non ci poteva essere alcun pericolo di fuga di polline (piante con fiori sterili, o piante femminili, venivano sistematicamente eliminati i fiori prima della apertura dalle piante maschili, non c’erano piantagioni vicine o specie compatibili, fatta eccezione per l’olivo che ancora non aveva fiorito; né tanto meno si erano verificati cambiamenti significativi nel suolo a carico di microrganismi (ricerche condotti dal CNR e CRA). Evidentemente un simile comportamento lascia adito a pensare che l’obiettivo fosse quello di distruggere ogni possibilità di fondare il nostro ragionamento su dati oggettivi, lasciando il campo agli slogan e alle posizioni ideologicamente pre-costituite. Il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali in passato, agli inizi del 2000, a sua volta ha fatto anche di peggio, tanto per non essere da meno, interrompendo al 2° anno un contratto di tre anni stipulato con alcuni Enti di ricerca per un progetto il cui obiettivo era quello di produrre piante transgeniche resistenti a due temibili patogeni: il colpo di fuoco batterico delle pomacee e il virus della sharka, I fondi (19.400 €), nel frattempo anticipati per portare a termine la ricerca dalle casse del mio Dipartimento, dovranno essere reintegrati con il mio stipendio in quanto garante del progetto, essendomi fidato della correttezza del Ministero. L’obiettivo lo avevamo raggiunto con la costituzione di piantine di pero resistenti al patogeno batterico (Erwinia amylovora), almeno da test in vitro, ma abbiamo dovuto distruggere tutte le piante in autoclave per la impossibilità di sperimentarle in campo per il test finale. E’ singolare che lo stesso Stato prima commissioni una ricerca poi intimi la distruzione dei prodotti da questa ottenuti, come è singolare che lo Stato insieme ai detrattori di questo tipo di biotecnologie, si opponga alla ricerca pubblica, favorendo di fatto quella privata e quindi in pratica la coltivazione di pochissime varietà più produttive, prodotte dalle multinazionali, favorendo così in questo modo la riduzione della biodiversità.

La ricerca pubblica in Italia di fatto è vietata: la normativa vieta, come è noto, quella in campo;in serra si possono sperimentare solo alcune piante di piccole dimensioni (erbacee) e in modo poco efficiente perché debbono essere coltivate in serre particolari e con substrati particolari, nelle quali non si possono riprodurre le condizioni naturali ed inoltre solo pochi enti di ricerca possono permettersi serre speciali per questo tipologia di ricerca; in laboratorio è difficile, spesso impossibile a causa della mancanza di fondi per questo genere di lavoro e soprattutto, i ricercatori hanno il timore di nominare la parola “Transgenico” o “Cisgenico” che sia, nei loro progetti per timore di vederseli scartare.

Altro impedimento allo sviluppo di varietà migliorate con questa tecnologia da parte della ricerca pubblica, nel caso venisse consentita la sperimentazione di campo, è la commercializzazione, che di fatto non è possibile per gli Enti pubblici per i costi proibitivi per la valutazione del rischio che di fatto solo le ditte private di grandi dimensioni possono permetterselo.

Ulteriore impedimento sarà dato dal Sistema di valutazione della ricerca recentemente attuato in Italia, che non incoraggia i ricercatori ad affrontare ricerche a lungo termine, per cui anche il MG tradizionale, che richiede tempi molto lunghi, già compromesso in Italia, è destinato a subire un ulteriore colpo. L’ultima speranza per ridurre i tempi di miglioramento genetico era rappresentata dall’utilizzo delle biotecnologie di per se stesse ma anche a supporto di quello tradizionale. L’uso delle biotecnologie è indispensabile per comprendere meglio la genetica e per capire il funzionamento dei geni e per correggere eventuali difetti di varietà già affermate di buon valore agronomico e commerciale dei suoi prodotti, incluse quelle che forniscono i cosiddetti prodotti tipici di un territorio o di nicchia. Anche queste varietà saranno destinate prima o poi a scomparire per il sopraggiungere di nuove malattie o perché non più adatte a quel territorio a causa dei cambiamenti climatici se non verranno apportate in loro modifiche senza ovviamente alterarne le peculiarità che le contraddistinguono, e le tecniche biotecnologiche al momento sono le uniche in grado di poterlo fare.

Se si teme di disturbare la ricerca privata, la ricerca pubblica non entra in concorrenza diretta con questa, infatti, la ricerca privata è indirizzata alla produzione di piante che si propagano per seme (mais , soia, cotone, riso, frumento, etc,), in quanto ogni anno i costitutori privati possono vendere la semente all’agricoltore, come d’altro canto fanno da tempo con i semi ibridi tradizionali. Le compagnie private non hanno ovviamente alcun interesse a produrre piante arboree resistenti a malattie, tra l’altro di difficile realizzazione, perché trovano maggior convenienza a vendere pesticidi piuttosto che piante resistenti ai patogeni.

La ricerca pubblica non avendo come finalità il profitto, è indirizzata invece verso studi complessi di base per una migliore comprensione dei fenomeni naturali e alla produzione di nuove varietà di specie di difficile manipolazione, come appunto sono le piante arboree da frutto, per renderle resistenti a stress biotici e abiotici, e allo stesso tempo può esercitare una ulteriore funzione di controllo, così come avviene in tutti gli altri Stati progrediti europei ed extra-europei.

Ci chiediamo, perchè uno Stato possa impedire la ricerca volta alla riduzione dell’impiego dei fitofarmaci, quando sono note a tutti le conseguenze del loro utilizzo, oppure impedire la produzione di piante resistenti a siccità, quando sono altrettanto note le conseguenze dei cambiamenti climatici in atto che favoriscono il processo di desertificazione. Gli agricoltori e i cittadini tutti sono al corrente di queste scelte scellerate da parte di chi ci governa?

Alla luce dei recenti avvenimenti socio-politici ciò che è accaduto a Viterbo non ha destato in noi molta meraviglia, considerato la dilagante insensibilità da parte dello Stato verso la ricerca, soprattutto quella pubblica, in modo particolare verso quella proiettata alle innovazioni.

In particolare, l’avversione verso la tecnica del DNA ricombinante o il timore nei confronti degli OGM in generale va ricercata in primo luogo in un oscurantismo imperante, in una comunicazione carente e distorta e in una pubblicità ingannevole che disorienta il cittadino. I politici, sebbene coscienti che porre ostacoli ad una ricerca innovativa ha già ora ed avrà sempre di più in futuro riflessi negativi sullo sviluppo del Paese, preferiscono sottrarsi alle proprie responsabilità non affrontando il problema, piuttosto che scontentare una parte del proprio elettorato. In questo clima né i comuni cittadini né tanto meno gli agricoltori sono messi nella condizione di conoscere e di capire a fondo le questioni di natura economica, etica e salutistica che tra loro si intrecciano.

I dibattiti scientifici sui mezzi di comunicazione di massa potrebbero fare chiarezza ma è noto che questi argomenti non fanno “audience”, oppure programmi dedicati non vengono mandati in onda per un preciso disegno politico dagli stessi organi pubblici di informazione. In compenso siamo tartassati, in alcuni supermercati, da ritornelli pubblicitari ingannevoli e gli agricoltori sono catechizzati dalle stesse loro associazioni che paventano il rischio che le coltivazioni di PM minaccino l’estinzione dei prodotti tipici e la riduzione della biodiversità. Asseriscono, cioè, l’esatto contrario di quanto la scienza ufficiale sta facendo con l’uso di queste tecniche biotecnologiche, aggiungono così ulteriore confusione ad un tema già di per sé complesso, sottraendo agli agricoltori la possibilità di un eventuale profitto dalla coltivazione di PM e soprattutto impediscono la ricerca pubblica.

I risultati dalla nostra sperimentazione si profilavano molto interessanti e in alcuni casi erano ben chiari, ma non ci hanno dato la possibilità di capire, di eseguire ulteriori analisi molecolari e biochimiche né di comparare tra loro i diversi genotipi con risposte analoghe ma di diversa intensità né di selezionare i genotipi migliori e di osservare il loro comportamento nel lungo periodo.

Avevamo ottenuto genotipi di fragola resistenti alle malattie, kiwi derivanti da piante trasformate con il gene dell’osmotina (proteina legata agli stress che si trova naturalmente in tutte le piante e in studio in medicina per le sue proprietà anti-infiammatorie) resistente almeno a due funghi patogeni, gerani che producevano rispettivamente tre e tredici volte di più il geraniolo e l’1-8 cinneolo. E ancora: genotipi di actinidia le cui foglie e i frutti, senza irrigazione, erano incredibilmente turgidi; olivi resistenti a malattie funginee e al freddo; infine portinnesti per ciliegi capaci di ridurre la mole delle piante. Tutte queste piante oggi sono state ridotte ad un ammasso di legna pronto per essere dato alle fiamme.

A nulla è valsa la raccolta di firme dell’associazione americana “Biofortified”, dell’Associazione Italiana Biotecnologi; non sono valsi nemmeno tutti gli articoli comparsi su “Nature” e “Nature Biotechnology, “Le Scienze”, la Fondazione Galileo, L’Istituto Bruno Leoni, etc e lettere indirizzate al Presidente della Repubblica e del Governo, da parte le lettere e commenti a sostegno della SOI, della SIGA, di Assobiotech, delle Accademie dei Georgofili e dell’Olivo e dell’Olio, nonché di moltissimi giornali e dirigenti di istituzioni scientifiche inglesi, americane e svizzere. Nemmeno l’interpellanza parlamentare che è stata presentata da diversi parlamentari di diversa estrazione partitica, tra i quali i Radicali, e che colgo l’occasione per ringraziare tutti, hanno ottenuto un minimo di attenzione.

Sono state pronunciate frasi per le quali come italiano mi vergogno. L’affermazione del direttore del Rothamsted Experimental Station, Inghilterra, che lo scorso aprile si è ritrovato ad affrontare un tentativo di incursione da parte di attivisti anti-OGM: “L’Italia non ha ancora imparato dagli errori del passato”, riferendosi alla ben più nota vicenda di Galileo. Su Nature News si legge: “I ricercatori inglesi si sono dovuti difendere dagli attivisti anti-OGM, Rugini dal suo Stato”. Proprio così, infatti all’Università della Tuscia il Ministero dell’Ambiente e il MiPaaf, hanno fatto intervenire le forze dell’ordine, per ben 3 volte, non per bloccare la distruzione dei prodotti della ricerca e della sperimentazione, come avvenuto in Inghilterra, ma per ispezionare e verbalizzare irregolarità puntualmente non riscontrate in quanto inesistenti. Ebbene, tutte queste notizie apparse su queste riviste, poche, in verità, sulle testate giornalistiche a più larga diffusione, non sono valse a nulla e continuerà così fin quando le scelte non verranno fatte da politici veri e illuminati, basate su dati scientifici e sulla convinzione della importanza della ricerca, e non, come spesso è avvenuto finora, da dirigenti ministeriali o da associazioni di categoria, che si basano su principi ideologici o di parte, o fatte da politici attenti solo a non scontentare parte degli elettori, a loro volta vittime dell’oscurantismo imperante sull’argomento.

L’umanità ha bisogno di piante efficienti capaci di difendersi da sole o con pochi input esterni, sia per i suoli già coltivati che per quelli ancora da colonizzare, perché attualmente inospitali per le varietà che disponiamo. E’ necessario quindi avvalersi di tutti i metodi di miglioramento genetico conosciuti per accorciare i tempi per la loro realizzazione. E’ necessaria altresì la collaborazione di tutti i soggetti con visioni differenti per risolvere problemi tecnici, politici e ideologici, nell’interesse di tutti, non solo di alcuni. Per questo è indispensabile una comunicazione intensa, corretta e con dibattiti scientifici condotti da persone libere e competenti e non come normalmente avviene da persone che esprimono solo una “opinione” spacciandola per “competenza”.

In Italia corriamo il rischio a breve di veder coltivare ovunque, quel ristrettissimo numero di PM delle multinazionali, se non vengono fatti i piani di coesistenza e paradossalmente senza alcun campo che ospita piante in sperimentazione prodotte dai ricercatori di Enti pubblici. Non si vedono altre vie percorribili, per fermare lo strapotere delle multinazionali e per non mettere a rischio la riduzione della biodiversità e delle produzioni tipiche, se non la via di potenziare o meglio permettere anche alla Ricerca Pubblica di svolgere lo stesso tipo di lavoro, come avviene in tutti i Paesi tecnologicamente avanzati. E’ urgente quindi il ripristino della sperimentazione di campo e soprattutto è fondamentale ridare il giusto peso alla tecnica del DNA ricombinante, che rappresenta una delle tante tecniche di miglioramento genetico, indispensabile tuttavia anche per capire il funzionamento dei geni e se, affiancata al miglioramento genetico tradizionale, è capace di abbreviare drasticamente i tempi per la creazione di nuove varietà, oggi più che mai necessarie per far fronte alle necessità imposte dai cambiamenti climatici, al mutare delle esigenze dei consumatori e alla forte richiesta di cibo nel mondo.