Questa pagina è un valido strumento per legali, giuristi e studiosi del contesto giurisprudenziale in cui è inserito il fine vita. Ripercorrendo i casi più influenti sulla materia, sono qui raccolte le decisioni dei tribunali di ogni ordine e grado.
Si ringrazia l’Avv. Francesco Di Paola per aver curato la pagina e l’Università di Trento per il Progetto BioDiritto.
Il caso di Fabiano Antoniani (Dj Fabo)
Il caso giudiziario di Fabiano Antoniani
Testi delle decisioni:
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Il caso di Davide Trentini
Il caso giudiziario di Davide Trentini
Testi delle decisioni:
Sentenza della Corte di Assise di Massa
Il caso di Mario/Federico Carboni
Il caso di Antonio
Il caso di Gloria
Il caso di Anna
Il caso di Laura Santi
Tutte le disobbedienze civili dopo la Sentenza Cappato
Il caso Piergiorgio Welby
La storia di Piergiorgio Welby
La lettera di Piergiorgio Welby al Presidente della Repubblica
Il caso giudiziario di Piergiorgio Welby
Testi delle decisioni:
Tribunale di Roma Sezione I civile Ordinanza 16 dicembre 2006
Tribunale di Roma – Gup – sentenza n. 2049/01
Il caso Eluana Englaro
Il caso giudiziario di Eluana Englaro
Testi delle decisioni:
Cassazione civile, sez. I, sent. 16 ottobre 2007, n. 21748
Consiglio di Stato sent. n. 04460/2014
Tribunale Amministrativo Regionale Lombardia, sent. n. 650/2016
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 21/06/2017 n° 3058
Il caso Giovanni Nuvoli
Il caso Walter Piludu
Altri casi d'interesse
Fonte: Progetto Biodiritto Università di Trento
Corte d’assise d’appello di Milano, sentenza, 24 aprile 2002 – Caso Forzatti
La Corte d’assise d’appello di Milano riforma la sentenza di condanna di primo grado del sig. E. Forzatti in merito all’imputazione di uxoricidio premeditato, poiché reato impossibile per inesistenza dell’oggetto, in particolare un omicidio impossibile per insufficienza della prova dell’esistenza in vita della persona che l’imputato avrebbe inteso sopprimere. Nei fatti il sig. Forzatti, rispettando la volontà precedentemente espressa dalla moglie e minacciando con un’arma da sparo (poi risultata scarica) gli operatori sanitari per tenerli lontano, aveva staccato i tubi di collegamento dell’impianto di ventilazione che la teneva in vita, provocandone così il decesso.
La Corte di Cassazione ha confermato la condanna a 9 anni e 4 mesi comminata a un uomo accusato di aver ucciso la moglie: l’uomo, imputato di omicidio aggravato, aveva confessato, dieci giorni a seguito dell’accaduto, di aver colpito la moglie con una coltellata, dopo aver tentato di ucciderla con una elevata dose di sedativo (Lexotan).
Corte d’Appello di Milano, 19 agosto 2011, n. 2359 – Caso Liessi
La Corte d’Appello di Milano condanna l’Azienda Ospedaliera Ospedale S. Carlo Borromeo e alcuni medici dipendenti della detta struttura sanitaria, convenuti in giudizio d’appello dalla vedova Liessi, per aver sottoposto a trasfusione di sangue coattivamente il paziente Remo Liessi, ministro di culto dei Testimoni di Geova, nonostante il suo lucido e reiterato rifiuto.
“Dossier: casi e materiali sul fine vita in Italia”, a cura del gruppo di studio di BioDiritto.
Corte di Cassazione sent. n. 23707/2012 – Amministratore di sostegno e DAT
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di una donna che in primo e secondo grado di giudizio si era vista respingere la richiesta di nomina di un amministratore di sostegno perché la perdita di capacità era futura e meramente eventuale.
Tribunale di Cagliari, giudice tutelare, sent. 22 ottobre 2009 – Nomina amministratore di sostegno
Il giudice tutelare del Tribunale di Cagliari si è pronunciato sul ricorso di una donna, non affetta da alcuna patologia, che chiedeva la nomina di un amministratore di sostegno in caso di sua eventuale futura incapacità. Il ricorso viene accolto e la nomina dell’amministratore di sostegno è condizionata all’insorgenza dell’incapacità e limitata alla durata della patologia; l’incarico dell’amministratore nominato è di far rispettare le dichiarazioni anticipate di trattamento della ricorrente.
Tribunale di Modena, 13 maggio 2008 – Nomina amministratore di sostegno pro futuro
Il giudice tutela del Tribunale di Modena ha nominato quale amministratore di sostegno di una donna affetta da SLA il marito della paziente. Il potere-dovere di esprimere il rifiuto alla ventilazione meccanica invasiva dovrà essere esercitato in caso di incapacità della paziente e qualora la stessa non abbia espresso una volontà opposta quando ancora in coscienza.
Giurisprudenza sovranazionale
FONTE: Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
Corte europea dei diritti dell’uomo (Sezione IV), 28 ottobre 2000 – Sanles Sanles c. Spagna
Fonte: Rivista AIC n. 2/2016, U. Adamo, Il diritto convenzionale in relazione al fine vita [..]
La prima volta che la Corte è stata chiamata ad esprimersi su una tematica inerente il fine vita risale al caso Sanles c. Spagna19. Ramón Sampredo era un cittadino spagnolo costretto ad una grave disabilità (tetraplegia) a seguito di lesioni irreversibili del midollo spinale causate da un grave incidente. Erano diversi anni (dal 1993) che il sig. Sampredo adiva i giudici spagnoli con la richiesta di non perseguire il soggetto che l’avesse aiutato a morire secondo lui degnamente, per come era nella sua volontà. Esaurite le vie di ricorso, in attesa della soluzione del recurso de amparo presentato al Tribunal Constitucional, il ricorrente morì per suicidio assistito con l’aiuto di soggetti rimasti ignoti. La cognata di Sampredo, la sig.ra M. Sanles Sanles, nel mentre si procedeva con un giudizio penale contro ignoti, avrebbe voluto proseguire il giudizio iniziato dal cognato. Tale pretesa rimase però tale, constatando, la giurisdizione nazionale spagnola, che la ricorrente non era legittimata a proseguire o ad avviare un procedimento per la tutela di un diritto che è personalissimo e non trasmissibile, come nel caso de quo. La ricorrente, allora, adiva la Corte EDU lamentando la violazione della Carta europea dei diritti fondamentali e argomentando sulla illegittimità della mancata previsione nell’ordinamento iberico della liceità della pratica eutanasica (aiuto al suicidio) e quindi della violazione dell’art. 2 della CEDU che, nel tutelare il diritto alla vita, deve riconoscere anche il diritto a morire con dignità, essendo quest’ultimo diritto speculare al primo. La Corte EDU, non entrando nel merito del ricorso, lo dichiara inammissibile per la mancanza, in capo alla ricorrente, della legittimazione a ricorrere non essendo essa ‘vittima’ ex art. 34 CEDU, in quanto non direttamente affetta dalle misure impugnate e per il fatto che il diritto per cui si ricorreva era un diritto personalissimo e quindi non trasmissibile ad altri.
Corte europea dei diritti dell’uomo (Sezione IV), 29 aprile 2002, caso Pretty c. Regno Unito (sentenza allegata)
Fonte: Rivista AIC n. 2/2016, U. Adamo, Il diritto convenzionale in relazione al fine vita [..]
Diane Pretty era una donna inglese di 43 anni a cui, tre anni prima, era stata diagnosticata una malattia neurodegenerativa progressiva (sclerosi laterale amiotrofica SLA); lo stato della malattia si era ulteriormente aggravato quando nel 2002 la Corte di Strasburgo, a cui la donna aveva fatto ricorso, deposita la decisione nel merito. Nelle parole della Corte si comprende bene la drammatica situazione in cui versava la donna: “La signora Pretty è quasi paralizzata dal collo ai piedi, essa non può in pratica esprimersi in maniera comprensibile e si alimenta mediante un tubo. La sua speranza di vita è molto limitata e si computa in mesi, se non in settimane. Il suo intelletto e la sua capacità di prendere decisioni sono tuttavia intatti. Gli stadi ultimi della malattia sono estremamente penosi e si accompagnano con una perdita della dignità. La signora Pretty ha paura e si preoccupa della sofferenza e della perdita di dignità che dovrà affrontare in caso di ulteriore sviluppo della malattia, per cui spera di poter decidere quando e come morire, stante anche il grave indebolimento delle braccia e delle gambe così come dei muscoli che controllano la respirazione. La morte sopravviene generalmente in seguito a problemi di insufficienza respiratoria e polmonite dovuti alla debolezza dei muscoli respiratori e di quelli che controllano la parola e la deglutizione. Nessun trattamento può bloccare la progressione della malattia che colpisce i neuroni motori all’interno del sistema nervoso centrale e provoca un’alterazione graduale delle cellule che comandano i muscoli volontari del corpo. In Inghilterra dal 1961 il suicidio (mero fatto) non è considerato più un reato, ma D. Pretty è impedita ad attuarlo in modo autonomo trovandosi in uno stato di completa paralisi a causa della sua malattia. L’assistenza al compimento di tale atto (assistenza al suicidio: fatto sociale), però, continua ad essere considerata e punita come reato, anche a seguito della riforma dei primi anni ‘60. L’avvocato della ricorrente, al fine di permettere alla sua assistita di compiere il gesto del suicidio così come coscientemente desiderato, reputando l’ultimo tratto della sua vita come non degno d’essere vissuto, invita con una lettera il pubblico ministero (Director of Public Prosecutions, DPP) ad impegnarsi a non perseguire penalmente il marito della ricorrente che, aderendo ai desideri della moglie, era intenzionato ad aiutarla nel realizzare il suo desiderio di suicidarsi. Il DPP rifiutò di accogliere quella che era subito parsa come una richiesta d’immunità al compimento di quello che era per legge un reato. L’avvocato a questo punto adì prima la Divisional Court ed in seguito la Camera dei Lords, ma entrambe, rigettando il ricorso, precisavano che il DPP non aveva il potere di assumere l’impegno di non perseguire un crimine e che l’articolo 2§1 della legge del 1961 sul suicidio non era incompatibile con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, così come ipotizzato dal ricorso proposto.
Si ricorreva, dunque, alla Corte di Strasburgo. Adendo la Corte EDU, la ricorrente impugnava una sezione del Suicide Act per violazione di una molteplicità di articoli della Convenzione ratificate nello Human Rights Acts, vale a dire l’art. 2 (diritto alla vita), l’art. 3 (proibizione della tortura), l’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), l’art. 9 (libertà di pensiero, di coscienza e di religione) e l’art. 14 (divieto di discriminazione). Secondo la tesi della ricorrente, l’aiuto al suicidio non si pone in contrasto con l’art. 2 della CEDU per la ragione che giudicarlo contrario al diritto convenzionale comporterebbe considerare gli ordinamenti di paesi nei quali il suicidio assistito è legale in difformità con la disposizione citata. Inoltre – sempre a dire della ricorrente –, l’art. 2 non garantisce solo il diritto alla vita ma altresì il diritto di scegliere se continuare o cessare di vivere. La decisione di continuare o cessare di vivere spetta all’individuo ed è un corollario del diritto alla vita, e ciò riconosce implicitamente un vero e proprio diritto a morire al fine di evitare una sofferenza e una indegnità ineluttabili. Per i giudici di Strasburgo, tale tesi non è da considerarsi fondata e soprattutto l’art. 2 non può essere in alcun modo interpretato nel senso di conferire un diritto che si configura come diametralmente opposto a quello positivizzato nel testo: dal diritto alla vita non deriva il diritto a morire. Non integrando il diritto a morire, l’art. 2 “protegge il diritto alla vita, senza il quale il godimento di uno qualsiasi degli altri diritti e libertà garantiti dalla Convenzione sarebbe illusorio” (§ 37). L’art. 2, inoltre, non contiene neanche un diritto all’autodeterminazione tale da poter riconoscere ad ogni individuo il diritto di scegliere la morte piuttosto che la vita (§ 40).
Risolta l’interpretazione della formulazione dell’art. 2, la Corte non prende in considerazione neanche l’altra parte della censura, limitandosi a dire che essa stessa, a guardare il thema decidendum, non deve stabilire se il diritto in un paese o in un altro disconosca o meno l’obbligo di proteggere il diritto alla vita, pur se arriva ad affermare che “anche se si dovesse ritenere conforme all’articolo 2 della Convenzione la previsione che dovesse riconoscere, in un determinato Paese, il suicidio assistito, ciò non sarebbe di nessun aiuto per la ricorrente nella fattispecie, dove non è stata accertata l’esattezza della tesi molto diversa secondo la quale il Regno Unito ignorerebbe gli obblighi discendenti dall’articolo 2 della Convenzione se non autorizzasse il suicidio assistito” .
La Corte pare aver proceduto con affermazioni più di buon senso che con argomentazioni strettamente giuridiche come quella che vorrebbe che l’opposto del diritto alla vita non è il diritto di morire, ma il dovere di vivere. Che la Corte europea non abbia potuto affermare ciò lo si può comprendere bene se si pensa agli effetti di una tale statuizione, che porrebbe il dovere di vivere in netta contrapposizione con il principio di autodeterminazione, ad esempio, nella cura.
Secondo parametro invocato è l’art. 3. Sostiene la ricorrente che la sofferenza che è costretta continuamente a subire è qualificabile come inumana e quindi degradante, con chiara violazione di quanto imposto agli Stati che si devono adoperare non solo per prevenire ma anche per rimuovere sofferenze di tale natura: detto in altro modo, lo Stato non tutela chi grava in uno stato di sofferenza talmente elevato da far chiedere l’aiuto al suicidio. L’avvocato, nell’atto di ricorso, cerca di distinguere il caso in cui si trova la sua assistita da quelli di altre persone che vorrebbero che il suicidio assistito fosse legalizzato. Detto in altri termini, ciò che è richiesto è la legalizzazione non tanto del suicidio assistito tout court, ma di quello limitato ai soli casi (come nel caso de quo) in cui la persona interessata sia in grado di dimostrare la capacità di adottare una simile decisione in piena coscienza. La persona, quindi, che richiede l’aiuto al suicidio non rientra in quella categoria di soggetti che dovrebbero avere bisogno di protezione maggiore perché maggiormente vulnerabili. Ripercorrendo l’esegesi dell’art. 2, la Corte non ha difficoltà a rilevare, intanto, che il governo dello Stato contro cui si ricorre non ha imposto alcun trattamento sanitario alla ricorrente; infatti, fermo restando che rientra nell’ambito dell’integrità fisica e psichica della persona poter rifiutare un trattamento (anche salva vita), nel caso di specie si chiedeva l’impunità della condotta del marito nel caso egli avesse violato una norma penale dell’ordinamento nazionale, ritenuta contraria a Convenzione.
Passando alla pretesa violazione dell’art. 8 della Convenzione, la Corte ci fornisce una più che interessante interpretazione del disposto appena richiamato sul quale, come vedremo anche in seguito, baserà il suo iter logico-argomentativo per risolvere i ricorsi che hanno riguardato l’ampio e delicato tema dell’aiuto al suicidio. Nell’art. 8 è contenuta la nozione di ‘vita privata’ che è una nozione ampia e che deve essere suscettibile di una definizione il più esaustiva possibile. Pur ribadendo il principio della sacralità della vita così come protetto anche dagli artt. 2 e 3 della Convenzione, “è sotto il profilo dell’articolo 8 che la nozione di qualità di vita si riempie di significato. In un’epoca in cui si assiste ad una crescente sofisticazione della medicina e ad un aumento delle speranze di vita, numerose persone temono di non avere la forza di mantenersi in vita fino ad un’età molto avanzata o in uno stato di grave decadimento fisico o mentale agli antipodi della forte percezione che hanno di loro stesse e della loro identità personale [ … ] Nella fattispecie, alla ricorrente viene impedito dalla legge di compiere una scelta per evitare ciò che, ai suoi occhi, costituirà un epilogo della vita indegno e doloroso. La Corte non può escludere che ciò costituisca una lesione del diritto dell’interessata al rispetto della vita privata” (§ 65).
La Corte, a questo punto, immette nel ragionamento un’argomentazione che, come si cercherà di dimostrare più avanti, è quanto meno discutibile. I giudici di Strasburgo richiamano il ragionamento delle cosiddette ‘chine scivolose, parlando (in generale) di persone fragili e riconoscendo (in concreto) nella ratio legis della disposizione in oggetto un’adeguata tutela dalla vulnerabilità della categoria in cui tali persone rientrano. Viene riconosciuta agli Stati la valutazione del rischio di abuso e delle probabili conseguenze degli eccessi che potrebbero discenderne o che sarebbero addirittura implicati dal venir meno del divieto generale del suicidio assistito. Solo il legislatore è soggetto competente a limitare al massimo i rischi di ‘scivolamento’ che la legalizzazione richiesta dalla ricorrente comporterebbe.
La Corte conclude, quindi, che non si riscontra la violazione dell’art. 8 CEDU, perché l’ingerenza da parte dello Stato costituisce una giustificazione proporzionata all’obiettivo di prevenire i rischi di abusi più che possibili contro atti che mirano a porre fine alla vita, rispetto a persone fragili che soffrono di malattie allo stato incurabili e che, per questa loro condizione, si trovano costrette in una situazione di particolare vulnerabilità. In conclusione, e sempre in riferimento all’art. 8, viene comunque riconosciuta come ragionevole la previsione della penalizzazione del suicidio assistito e comunque si precisa che tale scelta, in una società democratica, è giustificata in quanto necessaria alla protezione dei diritti degli altri.
Molto più essenziale il riferimento alla presunta violazione dell’art. 9. Secondo la ricorrente, il DPP, rifiutando di impegnarsi a non perseguire il marito che l’avrebbe aiutata al suicidio, avrebbe leso anche il diritto della ricorrente alla libertà di manifestare le proprie convinzioni. La Corte, di nuovo, non riconosce la violazione di alcun diritto, non concernendo le doglianze della ricorrente alcuna forma di manifestazione del proprio pensiero.
Ultimo – ma come si è soliti dire, non per importanza –, è il riferimento all’art. 14 rispetto al quale D. Pretty lamenta di essere vittima di una discriminazione nella misura in cui è trattata al pari di soggetti la cui situazione è però non comparabile alla sua. La differenza con altre persone non menomate è che solo le prime possono suicidarsi mentre ella, semplicemente, pur volendolo, non può farlo, non essendo in grado di suicidarsi senza assistenza. La giustificazione a tale diversità di valutazione è che ella stessa, per il solo fatto di essere menomata fisicamente ma non nell’intelletto, è considerata come ‘comune persona vulnerabile alla quale lo Stato deve protezione. A dire della Corte – che dichiara anche questa tesi infondata – non c’è violazione alcuna del principio di non discriminazione fra le persone che sono in grado di suicidarsi senza aiuto e quelle che non ne sono capaci: “La linea di confine tra le due categorie è spesso molto labile e tentare di introdurre nella legge un’eccezione per le persone ritenute incapaci di suicidarsi da sole comprometterebbe seriamente la protezione della vita che la legge del 1961 ha inteso consacrare e aumenterebbe in maniera significativa [anche in questo caso] il rischio di abuso” (§ 74).
L’importante decisione della Corte di Strasburgo, dunque, se da un lato ritiene compatibile con la CEDU la normativa inglese, dall’altro “lancia un segnale di possibili «riposizionamenti» interpretativi” quando accenna al profilo della qualità della vita e quindi ad una possibile tutela ex art. 8.
Corte europea dei diritti dell’uomo (Sezione I), 28 gennaio 2011, caso Haas c. Svizzera (sentenza allegata)
Fonte: Rivista AIC n. 2/2016, U. Adamo, Il diritto convenzionale in relazione al fine vita [..]
Il ricorrente è un cittadino svizzero di nome M. Ernest G. Haas che soffre da ben venti anni di una malattia molto grave, che gli fa ritenere (così come abbiamo visto per il caso D. Pretty) che la sua vita non sia più degna di essere vissuta. Dagli atti processuali si rinviene il dato che già per due volte egli ha cercato di porre fine alla sua esistenza attraverso il suicidio, ma senza raggiungere il drammatico obiettivo voluto e ricercato. A questo punto, pur di porre termine alla sua vita, decideva di ricorrere all’aiuto offerto da una nota associazione privata che fornisce assistenza al suicidio attraverso la somministrazione del pentobarbitale sodico, un barbiturico ad azione letale rapida. Il ricorrente, però, non riuscì a ricevere tale trattamento dall’associazione Dignitas, in quanto la malattia di cui soffriva non rientrava tra quelle definite terminali; si trattava, infatti, di una sindrome psichiatrica per la quale, nonostante lo stadio avanzato, non poteva escludersi, dal punto di vista medico-scientifico, la guarigione.
Benché la Svizzera sia uno dei pochi paesi europei in cui è riconosciuta la possibilità di richiedere e di ottenere l’assistenza al suicidio, ciò non significa che la sua legalizzazione sia assoluta. Infatti, il codice penale svizzero, che continua a vietare l’omicidio del consenziente, legittima l’assistenza al suicidio solo se non ricorrono motivi di tipo egoistico e specifica come l’accesso al pentobarbitale non sia esente da prescrizione medica. Ritornando ai fatti, nessuno dei numerosi psichiatri consultati rilasciava alcuna prescrizione medica per la somministrazione del pentobarbitale, tanto che il signor Haas decideva di rivolgersi a diverse autorità, tra cui l’Ufficio federale della sanità pubblica, quello della giustizia, ed anche il Dipartimento federale dell’Interno, al fine di ottenere l’autorizzazione a procurarsi, attraverso l’associazione Dignitas, il pentobarbitale anche senza prescrizione medica. Pure questa via non ebbe alcun successo, tanto che il cittadino svizzero decideva di ricorrere al Tribunale federale lamentando proprio la violazione dell’art. 8 CEDU; infatti – a suo modo di vedere –, al diritto riconosciuto in tale articolo (il diritto di decidere della propria morte) non si applicano, nel caso de quo, le eccezioni indicate per legittimare l’ingerenza da parte dello Stato, che sole possono limitare il diritto medesimo, così come previsto dal secondo § dello stesso articolo 8. Il signor Haas adduceva che l’obbligo di prescrizione medica al fine di ottenere la sostanza necessaria al suicidio e l’impossibilità di procurarsi una tale prescrizione costituiva un’illegittima limitazione da parte dello Stato del pieno godimento del diritto al rispetto della sua vita privata. Anche il Tribunale federale, tuttavia, decise con il rigetto del ricorso, ritenendo anzitutto che la fattispecie in esame non rientrasse nell’alveo dei casi eccezionali in cui il medicinale poteva essere rilasciato senza prescrizione e che il diritto ad autodeterminarsi ex art. 8 §1 CEDU comprende certo il diritto di un individuo di decidere in che modo e in quale momento mettere fine alla propria vita, ma che questo è distinto dal diritto all’assistenza al suicidio da parte dello Stato o di un terzo. Per il Tribunale, stando al caso concreto, non poteva ritenersi che l’impossibilità per il ricorrente di togliersi la vita in modo degno e certo rappresentasse un attentato al rispetto della propria vita privata ai sensi dell’art. 8 §1 CEDU, in quanto l’indispensabilità della prescrizione medica per una sostanza come il pentobarbitale è dovuta alla (e giustificata dalla) necessità di una preventiva ed approfondita diagnosi della situazione del paziente volta a testarne la capacità di discernimento, la serietà e la persistenza dell’intenzione ed a verificare l’incurabilità della malattia.
Come richiede il carattere della sussidiarietà della giustizia di Strasburgo, esaurite tutte le vie di ricorso interno, da parte del ricorrente fu presentata istanza alla Corte EDU continuando a lamentare la violazione dell’art. 8 della Convenzione e quindi l’ingerenza da parte dello Stato nel diritto al rispetto della sua vita privata, perché, in un caso eccezionale come il suo, la possibilità di ottenere i medicinali necessari al suicidio deve essere garantita dallo Stato.
Dobbiamo iniziare a mettere in luce le differenze fattuali che intercorrono tra questo caso e quello di Pretty c. Regno Unito in cui la ricorrente, affetta da malattia grave ed incurabile, era in una situazione di incapacità di suicidarsi, se non attraverso un aiuto, non riuscendo, pertanto, a porre fine alla propria esistenza che riteneva orami non più rispondente alla sua accezione di dignità. Nel caso Haas, viceversa, la malattia del ricorrente – classificata come curabile – non gli impedisce di agire da solo per procurarsi la morte. Bisogna allora comprendere se nel diritto ad autodeterminarsi, garantito dall’art. 8 §1, venga ricompreso anche il diritto di un individuo di vedersi accordare un aiuto al suicidio sempre e comunque, vale a dire a prescindere dall’esistenza di determinate circostanze e quindi senza alcuna condizione. Stante l’affermazione che il diritto di un individuo di decidere in che modo e in che momento mettere fine alla propria vita, con il limite invalicabile che tale volontà sia formata in modo libero, fosse uno degli aspetti del diritto al rispetto della propria vita privata (§ 51), così come (quasi) affermato nel caso Pretty (§ 67), a dire della Corte di Strasburgo, l’ineludibile necessità della prescrizione medica al fine del rilascio del pentobarbitale costituisce un modo appropriato e necessario affinché sia tutelata la vita delle persone che si trovano in una condizione di vulnerabilità, e che per questo l’intenzione del suicidio può anche fondarsi su una crisi temporanea che può limitare la capacità di discernimento. Seppure quella di ‘vita privata’ è una nozione estesa, la tutela del diritto convenzionale non richiede l’obbligo gravante sullo Stato di consentire la somministrazione del pentobarbitale a chiunque, a prescindere, id est, dalla prescrizione medica, pur se il ricorrente chiede, al pari della signora Pretty, di poter morire in modo degno ed indolore. Questa interpretazione, in combinato disposto con l’art. 2, fa sì che la normativa in esame sia rispettosa dell’obbligo gravante sugli Stati di tutelare il diritto alla vita, in quanto riesce ad assicurare come la decisione di suicidarsi derivi da una libera volontà dell’interessato e risponda allo scopo legittimo di impedire gli abusi dell’utilizzo di sostanze letali (viene riproposta, quindi, la tesi delle chine scivolose). Dunque, stante anche il margine di apprezzamento degli Stati membri nelle questioni interne, la Corte europea ritiene che non vi sia stata violazione dell’art. 8 della Convenzione per la previsione normativa di subordinare a perizia psichiatrica il rilascio di un medicinale letale.
Corte europea dei diritti dell’uomo (Sezione V), 19 luglio 2012, caso Koch c. Germania (sentenza allegata)
Fonte: Rivista AIC n. 2/2016, U. Adamo, Il diritto convenzionale in relazione al fine vita [..]
Il ricorrente è Ulrich Koch, cittadino tedesco, la cui moglie – che a seguito di incidente era rimasta quasi completamente paralizzata e costretta ad un trattamento di ventilazione artificiale e a cure infermieristiche a ciclo continuo – aveva espresso in modo cosciente la volontà di morire, pur avendo consapevolezza, a seguito di valutazione medica, di un’aspettativa di vita di almeno quindici anni, e probabilmente, proprio dinanzi a questa prospettiva di lunga sofferenza ed inabilità, la volontà di non voler più vivere si era rafforzata.
La signora Koch aveva richiesto un’autorizzazione al Federal Institute for Drugs and Medical Devices al fine di ottenere – anch’ella come negli altri casi finora analizzati – una dose di pentobarbitale di sodio, ma senza esito positivo. La decisione di non concedere l’autorizzazione discendeva dal fatto che l’eventuale concessione sarebbe stata contraria a quanto disposto dal German Narcotics Act, nella misura in cui esso stabilisce che non possono essere prescritte le sostanze ivi indicate (fra cui il pentobarbitale) se lo scopo non è quello del supporto vitale. La moglie del ricorrente si suicidò in Svizzera, assistita dall’organizzazione Dignitas. Il marito iniziò ad agire in via giurisdizionale per ottenere il riconoscimento dell’illegittimità della decisione dell’Istituto federale tedesco per non aver concesso il farmaco per fini letali, ma sia il Tribunale amministrativo adito sia la Corte d’appello dichiararono inammissibile il ricorso, sostenendo che il ricorrente, a norma del diritto nazionale e dell’articolo 8 CEDU, non poteva invocare diritti non propri, non avendo alcun titolo a proseguire il ricorso presentato dalla moglie poi deceduta: al ricorrente, id est, non fu riconosciuta la legittimazione ad agire. A medesime conclusioni processuali giunse l’adito giudice costituzionale, in quanto il ricorrente non poteva esercitare un diritto intrasmissibile, quale quello alla tutela della dignità umana proprio della moglie deceduta. Il signor Koch, esaurite le vie di ricorso interno, decide di adire la Corte europea, affermando che il rifiuto opposto alla richiesta della sua ormai defunta moglie avesse determinato una lesione dell’art. 8 CEDU, in quanto l’aveva costretta a giungere fino in Svizzera per dar corso alle sue volontà, non riconoscendole, di conseguenza, il diritto ad una morte dignitosa; viene altresì denunciata da parte del ricorrente la violazione dell’art. 13, nella misura in cui i tribunali interni (amministrativi e costituzionale), negandogli la possibilità di vedersi affrontare la questione nel merito, violavano il suo diritto ad un ricorso effettivo. La Corte europea – rigettando le istanze del Governo costituitosi in giudizio – ammette il ricorso e si pronuncia nel merito della questione sollevata. I giudici di Strasburgo riconoscono nel ricorrente il soggetto portatore di diritti propri discendenti dall’art. 8 e ciò alla luce del suo lungo rapporto matrimoniale (25 anni) con la moglie deceduta e, soprattutto, la piena condivisione della volontà della moglie di porre fine alla sua vita indicano le diversità con il caso Sanles, facendo sì che il signor Koch debba essere considerato come soggetto direttamente colpito dal rifiuto dell’Istituto federale di non concedere il farmaco letale richiesto dalla moglie.
Dopo aver richiamato i suoi precedenti, regolati dalla fattispecie concreta da cui erano sorti, la Corte di Strasburgo, entrando nel merito del ricorso, riconosce la violazione del diritto ex art. 8, in quanto il rifiuto dei giudici tedeschi di esaminare nel merito la domanda del ricorrente di ottenere l’autorizzazione all’acquisto di un farmaco letale, per permettere una fine dignitosa alla propria consorte gravemente malata e che aveva intrapreso prima di morire la via giudiziaria per vedersi riconosciuto tale diritto, integra una violazione del suo diritto alla tutela della vita privata. Al tempo stesso, in assonanza con i suoi precedenti processuali, dichiara irricevibile la doglianza relativa alla violazione dei diritti della moglie, stante la natura intrasmissibile del diritto in questione.
Al di là delle affermazioni di carattere processuale, ciò che in questa sede preme sottolineare è che la Corte decide di riaffermare, sempre in un obiter dictum, che non si può escludere che impedire a un soggetto di scegliere autonomamente di interrompere la propria esistenza, se considerata non più degna di essere vissuta, costituisca un’interferenza con il diritto garantito dal più volte richiamato art. 8 CEDU.
La decisione della Corte, che è di natura processuale, mira a richiamare i giudici nazionali al loro essere anche giudici di convenzionalità e, nel rispetto del principio di sussidiarietà e del margine di apprezzamento, conclude che “il meccanismo di tutela istituito dalla CEDU traccia ruoli ben distinti per la Corte Edu e per gli ordinamenti nazionali, esigendo che siano questi ultimi a fornire riparazione alle violazioni dei diritti convenzionali, e lasciando che la Corte eserciti un ruolo di controllo soggetto al principio della sussidiarietà. Tale principio diventa ancora più stringente se la doglianza riguarda una questione per cui lo Stato gode di un significativo margine di apprezzamento, come avviene per quelle materie in cui gli stati membri sono lungi dall’aver raggiunto una posizione unanime”.
Corte europea dei diritti dell’uomo (Sezione II), 14 maggio 2013, caso Gross c. Svizzera (sentenza allegata)
Fonte: Rivista AIC n. 2/2016, U. Adamo, Il diritto convenzionale in relazione al fine vita [..]
La signora Alda Gross è un’anziana cittadina svizzera di ottant’anni. Non è affetta da alcuna malattia, né tanto meno da malattia degenerativa incurabile tale da condurla a morte in breve tempo. Ella, solamente, non riesce più a sopportare il suo progressivo, seppur fisiologico, invecchiamento e con questo la naturale perdita delle proprie capacità psico-fisiche, o comunque un loro inarrestabile deterioramento: per questo la signora Gross decide di voler porre fine alla sua vita, considerata non più degna d’essere vissuta. Tenta, allora, il suicidio, ma senza raggiungere l’esito auspicato, per cui decide di ricorrere alla richiesta di somministrazione del pentobarbitale sodico, unico espediente che possa assicurarle la morte, senza il rischio di fallire nuovamente nel suo proposito, evidentemente non venuto meno dopo il tentativo di suicidio fallito.
In un ordinamento permissivo qual è quello svizzero, la somministrazione di sostanze considerate letali non è totalmente libera, ma subordinata ad alcune, certe e necessitate circostanze, fra le quali quella del rilascio della prescrizione medica, secondo regole prescritte. Queste, in tale ordinamento, non sono positivizzate in legge, ma nelle linee guida dell’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche (ASSM), in cui sono indicate le circostanze e i presupposti che autorizzano il personale medico all’aiuto al suicidio mediante la prescrizione di somministrazione del farmaco solo allorquando il paziente si trovi in una fase terminale della malattia e quando la sofferenza cui il malato è sottoposto risulta essere intollerabile. Inoltre, per consentire la prescrizione del farmaco deve essere presente il requisito psicologico, per il quale il paziente deve esprimere in modo libero la propria volontà di porre fine alla propria esistenza. Dunque, il requisito patologico deve sempre accompagnarsi a quello psicologico, valendo anche il contrario: la mancanza di uno dei due requisiti determina l’impossibilità della prescrizione del farmaco letale.
La mancata prescrizione, stante l’assenza di uno dei due fattori appena ora richiamati, è alla base dell’inizio della via giudiziaria intrapresa dalla ricorrente che la porterà a depositare atto di ricorso presso la cancelleria dei giudici di Strasburgo. La signora Gross, infatti, si era rivolta a diversi medici che, pur ritenendola persona in grado di assumere la sua decisione in condizioni di perfetta lucidità, constatavano che ella non era affetta da malattia, tanto meno terminale, rifiutando pertanto di prescriverle la sostanza.
Anche l’autorità giudiziaria rigettò la pretesa, confermando la scelta compiuta dai medici e non rilevando alcuna violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti fondamentali, come sostenuto dalla ricorrente per violazione del suo diritto a scegliere come e quando morire. La mancata violazione delle norme CEDU fu argomentata anche dalla Corte Suprema Federale che valutò come ragionevole la presenza delle regole richieste dalle ASSM. La donna ricorse alla Corte EDU sostenendo la violazione dell’art. 8. I precedenti sono costituiti dalle sentt. Pretty e Haas (§ 65), nelle quali si è affermato che la scelta del ricorrente di evitare che quella che, ai propri occhi, è una vita indignitosa e penosa rientri appieno nel campo di applicazione dell’art. 8 della Convenzione. Tale articolo, d’altronde, nel suo secondo §, rinvia alle restrizioni che lo Stato decide di prevedere. Nell’ordinamento svizzero tali limitazioni non sono previste nella fon- te legge, ma nelle linee guida predisposte non da un ente statuale, ma da una organizzazione medica.
Ora, nelle linee guida svizzere non è presa in chiara considerazione, almeno a dire della Corte europea, la concreta situazione in cui versa la ricorrente, in quanto soggetto non in fin di vita ma che scientemente desidera suicidarsi. Questa mancata previsione, che renderebbe il quadro normativo opaco e non del tutto chiaro nel classificare quella determinata circostanza, ha causato alla signora Gross uno stato di sofferenza nel quale non sarebbe incorsa se la normativa non avesse peccato in chiarezza ed in comprensibilità (cfr. §§ 65- 66). Da qui la violazione del diritto garantito alla ricorrente dall’art. 8 CEDU, anche se, non entrando nel merito della questione, nel rispetto del margine di apprezzamento, la Corte non precisa se esiste un obbligo in capo agli Stati di prescrivere il farmaco letale a soggetti che, seppur non affetti da alcuna patologia terminale, richiedono il suicidio in piena coscienza. Se il margine d’apprezzamento serve alla Corte per non esprimersi sull’esistenza o meno di un obbligo in capo agli Stati di normare sui temi eutanasici, da altra prospettiva esso sembra non esser preso in considerazione nella misura in cui si richiede allo Stato elvetico un surplus di regolamentazione nella materia già disciplinata.
Corte europea dei diritti dell’uomo-Grande Camera, 5 giugno 2015, caso Lambert e altri c. Francia (sentenza allegata)
Fonte: Rivista AIC n. 2/2016, U. Adamo, Il diritto convenzionale in relazione al fine vita [..]
La Corte europea, con il caso Lambert, ha dovuto decidere sui limiti dello Stato nell’agire dinanzi ad una richiesta di interruzione di trattamenti salva vita come la nutrizione e l’alimentazione artificiale. Nell’ordinamento francese è stato positivizzato il diritto a rifiutare i trattamenti sanitari anche salva vita (e nel caso con l’ausilio di trattamenti palliativi che possono avere pure l’effetto di ‘accorciare la vita) – diritto di creazione pretoria da parte della Court de Cassation – nella legge c.d. Leonetti, vale a dire la Loi n. 2005-370 du 22 avril 2005 relative aux droits des malades et à la fin de vie con la quale si è modificato il Code de la santé publique. Inoltre è da ricordare che in Francia è riconosciuta la possibilità di redigere le directives anticipées da parte di persone maggiorenni e che, a prescindere da eventuali indicazioni da parte del paziente, il medico deve astenersi dal praticare trattamenti che risultino inutili, sproporzionati o che non sortiscano altro effetto se non quello di mantenere in vita in modo artificiale; tali atti, prodotto di una ‘ostinazione irragionevole, possono essere o non iniziati o comunque sospesi. Dunque, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1 della legge Leonetti: “L. 1110-5 du code de la santé publique”: questi trattamenti “non devono essere praticati o perseguiti qualora siano il risultato di una ostinazione irragionevole. Quando appaiano inutili, sproporzionati o qualora non abbiano altro effetto che il solo mantenimento artificiale in vita, possono essere sospesi o non intrapresi in conformità alla volontà del paziente e, se quest’ultimo non è in grado di esprimere la propria volontà, secondo una procedura collegiale definita dalla normativa. La nutrizione e l’idratazione artificiali sono trattamenti che possono essere interrotti […]. Qualora [tali] trattamenti […] siano sospesi o non intrapresi, il medico tutela la dignità del paziente in fin di vita e garantisce la qualità della sua vita dispensando le cure palliative”. Se quindi vi è un largo riconoscimento del diritto al rifiuto delle cure, dall’altra – così come per la maggior parte dei paesi europei –, anche in Francia il codice penale punisce l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio (art. 223-13 c.p.). A seguito di un incidente stradale, Vincent Lambert, che non ha lasciato alcuna direttiva anticipata di trattamento, versa in uno stato vegetativo dal 2008. Il 10 aprile 2013, i medici curanti decidono di interrompere l’alimentazione e diminuire l’idratazione artificiali, perché ritenuti espressione di quelle cure definite dalla legge Leonetti come obstination déraisonnable. La decisione dei medici è confortata dalla moglie – che assicura che il marito in vita le avrebbe espresso la volontà di morire qualora si fosse trovato in una condizione di incapacità –, ma è osteggiata dai genitori e dai fratelli che hanno impugnato la decisione dei medici (si tratta, per legge, di una ‘decisione medica collegiale che è rigidamente ‘proceduralizzata’) affinché sia ristabilita l’alimentazione e aumentata l’idratazione. La via giudiziaria porta fino al Conseil d’État – che riforma l’attuazione della decisione presa dal Tribunale amministrativo di Châlons-en-Champagne che aveva sospeso la decisione medica di inter- rompere la nutrizione artificiale –, che, anche con l’ausilio del diritto comparato, il 24 giugno 2014 giudica legittima la decisione dei medici di interrompere i trattamenti che tengono in vita Vincent Lambert. I genitori e i fratelli di Lambert, a questo punto, ricorrono alla Corte EDU, che accoglie la richiesta di sospendere l’esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato e il divieto di trasferimento del paziente in un altro ospedale o all’estero. Il 5 giugno 2014 la Corte europea è entrata nel merito e ha depositato la sentenza. La Grand Chambre, con tale ultima decisione ed in riferimento all’art. 2, ha riconosciuto, in primo luogo, come non esista alcun consenso tra gli Stati membri riguardo all’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale quando essi siano diventati irragionevoli; in secondo luogo, come ci sia, invece, il consenso sull’importanza delle volontà del paziente nei processi decisionali, fermo restando le differenze di disciplina. Da tale premessa, la Corte considera che “nell’ambito del fine vita deve essere riconosciuto un margine d’apprezzamento non solo con riguardo alla possibilità di permettere o meno la sospensione di trattamenti che mantengono in vita artificialmente e le relative modalità di esecuzione, ma anche sul come trovare un equilibrio tra la protezione del diritto alla vita del paziente e quella del diritto al rispetto della vita privata e dell’autonomia personale” (§ 148). Inoltre, la Corte è “pienamente consapevole dell’importanza delle questioni sollevate dal caso, che ha implicazioni mediche, giuridiche ed etiche della più grande complessità. Dalle circostanze del caso di specie, la Corte ricorda che spetta in primo luogo alle autorità nazionali verificare la conformità della decisione di interrompere i trattamenti con il diritto interno e la Convenzione e di stabilire i desideri del paziente in conformità alla legislazione nazionale. Il ruolo della Corte è stato quello di esaminare l’osservanza da parte dello Stato degli obblighi positivi di cui all’articolo 2 della Convenzione” (§ 181).
La Corte – anche sulla scorta delle osservazioni generali delle più alte istanze mediche ed etiche francesi – ha quindi ritenuto che sia la disciplina legislativa francese, così come interpretata dal Conseil d’État, sia il processo che ha condotto alla decisione di interrompere i trattamenti salva vita siano da ritenere compatibili con l’articolo 2 della Convenzione. Proprio perché si è dinanzi ad una ipotesi di accanimento terapeutico, la decisione è rimessa ad un organo collegiale medico, che è legittimato (dalla constatazione scientifica) a prendere una decisione ‘senza’ il consenso del paziente, ma proprio perché non si è dinanzi ad una relazione terapeutica il cui oggetto è una ‘proposta’ di cura anche minimamente efficace. Consapevole di essere dinanzi ad una questione priva di precedenti, riconosciuto il margine di apprezzamento, la Corte ha dichiarato assorbito il motivo di ricorso basato sull’articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare). Dunque, per la Corte la condotta del medico può andare dalla semplice somministrazione di cure palliative, alla sedazione profonda e continuativa, fino alla cessazione dell’alimentazione e idratazione artificiale, al fine di assicurare l’interruzione del trattamento per le situazioni in cui il paziente è incosciente; questa, che è la previsione legislativa, non fa venir meno lo Stato francese ai suoi obblighi dalla sottoscrizione della Convenzione.
Altre decisioni internazionali
Carter v. Canada (Attorney General), 2015 SCC 5
Con la sentenza Carter v. Canada la Corte suprema canadese ha dichiarato, all’unanimità, l’incostituzionalità del divieto generalizzato di suicidio assistito.
Sintesi: La Court of Protetione, sulla base del Mental Capacity Act 2005, dispone l’interruzione di idratazione e nutrizioni artificiali per un soggetto in stato di minima coscienza, incapace di esprimere il proprio consenso.