Occorre più attenzione alla qualità del fine-vita

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Corriere della Sera
Vera Martinella

Di tumore si guarisce in un sempre maggior numero di casi, ma non sempre, e quando la malattia giunge alle sue fasi finali c’è ancora molto da fare perché la situazione venga gestita al meglio. Uno studio statunitense sottolinea l’importanza della qualità del “fine vita”.

Malati terminali. Di tumore si guarisce in un sempre maggior numero di casi, ma non sempre. E quando la malattia giunge alle sue fasi finali c’è ancora molto da fare perché la situazione venga gestita al meglio. A sottolineare il problema delle terapie oncologiche di «fine vita» è uno studio statunitense presentato durante il recente congresso della Società Americana di Oncologia Clinica, che ha analizzato i dati di oltre 28 mila pazienti terminali, deceduti a causa di differenti forme di cancro tra il 2007 e il 2014, a un’età inferiore ai 65 anni. I risultati mostrano che oltre 6 malati su 10 sono stati ricoverati e, di conseguenza, circa un terzo è morto in ospedale e non a casa propria, mentre meno di 1 su 5 ha utilizzato gli hospice o le cure domiciliari.

Inoltre più di un quarto dei pazienti è stato sottoposto a trattamenti giudicati “aggressivi”. Nel complesso, tra ricoveri ospedalieri, ingressi al Pronto soccorso, sedute di radioterapia o somministrazione di farmaci, il 75 per cento dei soggetti con tumore in stadio avanzato negli ultimi 30 giorni di vita ha ricevuto trattamenti eccessivi al posto delle cure palliative che sarebbero state indicate nella loro condizione. «Il danno, in questa situazione, è duplice — commenta Carmine Pinto, presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica e direttore dell’Oncologia Medica all’Arcispedale S. Maria Nuova di Reggio Emilia —: da un lato si nuoce alla qualità della vita dei diretti interessati, dall’altro siamo di fronte a un uso improprio di risorse.

In Italia da anni stiamo lavorando perché ci sia un adeguato accompagnamento in questa fase della malattia: abbiamo 35 Unità di Oncologia accreditate per le cure, il più alto numero in Europa, e si sta diffondendo una cultura di integrazione tra le varie professionalità in quest’ambito. C’è ancora molto da fare, ma siamo sulla buona strada». Nel nostro Paese ogni anno circa 177 mila persone muoiono di cancro, il numero di decessi ospedalieri per tumore è in calo, mentre cresce il numero di pazienti terminali assistiti a casa: sono stati 52mila nel 2014, almeno il 30 per cento in più rispetto agli anni precedenti. «Troppi malati terminali passano i loro ultimi mesi di vita fra trattamenti invasivi, ricoveri ospedalieri, complicanze ed effetti collaterali — sottolinea Carlo Peruselli, presidente della Società Italiana Cure Palliative —. Bisogna anticipare il discorso sul fine vita e pianificare precocemente le cure palliative, in modo che pazienti e familiari non le percepiscano solo come un’ultima spiaggia, ma come parte di un percorso. Tanto più che vivere meglio (grazie alle cure palliative) non equivale a vivere meno: la chemioterapia palliativa può non prolungare la vita in modo significativo e per di più non è quasi mai scevra da tossicità».

Nella partita che si gioca fra costi ed etica, l’organizzazione sanitaria deve mantenere saldo il duplice obiettivo di far quadrare i conti e assicurare un accesso equo alle cure oncologiche «migliori» (ovvero le più adeguate alla singola situazione), indipendentemente dal luogo di residenza. «Serve più sinergia tra ospedale e territorio — conclude Pinto —, una migliore organizzazione della rete di cure. Perché il nostro Sistema sanitario continui a essere sostenibile è anche fondamentale evitare gli sprechi, razionalizzare e integrare al meglio ospedali, assistenza domiciliare e hospice, evitando visite, terapie e procedure non appropriate. Da molti anni si parla di Reti Oncologiche Regionali, il cui obiettivo è garantire uniformità di comportamenti ed equità di accessi in tutte le fasi della malattia. Ma solo poche Regioni le hanno già davvero attivate».