Non promettiamo la cura ma moriremmo per trovarla

La Repubblica
Elena Cattaneo

Corea di Huntington, una malattia degenerativa del sistema nervoso scritta nei geni e senza terapia. La scienziata-senatrice racconta la guerra del suo laboratorio contro il male e l’urgenza di dare una risposta ai malati, cominciando con l’ascoltare le loro voci.

Non essere lasciati soli. Questa è la richiesta, legittima e costante, di quanti si trovano ad affrontare una diagnosi di malattia neurologica progressiva, attualmente senza cura. Per la sclerosi amiotrofica laterale, le atassie cerebrali, il Parkinson, l’Alzheimer, l’Huntington, nei nostri laboratori rispondiamo che ci sono molti studi in corso. Ogni giorno facciamo passi in avanti nella conoscenza, ma dobbiamo ancora capire perché i neuroni muoiono per poterne contrastare gli effetti e cercare di sconfiggere le cause. Anche se la scienza non può promettere una cura, è solo perseverando che possiamo garantire l’assiduità nel ricercarla. Ma nonostante l’instancabile impegno di tanti, è difficile comprendere cosa significhi per una persona e la sua famiglia una diagnosi di malattia genetica oggi “incurabile”. Coordinando un laboratorio universitario che studia la Corea di Huntington, una malattia neurologica causata da un gene mutato che provoca la morte di alcuni neuroni cerebrali, da anni mi trovo a contatto con i malati, i loro familiari e i figli a rischio.

Trovo imprescindibile e necessario entrare in relazione con loro e spiegare ciò che sappiamo della malattia. Spesso mi parlano della diagnosi come di un momento traumatico irreversibile. Alcuni mi aiutano a riconoscere nella malattia la fragilità della vita umana, mi raccontano del tentativo di accettare quella vita diversa, ma non per questo meno importante. Altri si “ritirano”, colpiti da quella che ritengono una “malasorte”. Altri ancora provano quasi “vergogna” in un mondo educato al successo. E questa è la reazione più dolorosa, perché si tratta di un sentimento immeritato, frutto di un pregiudizio sociale.Non ho risposte consolatone per loro, ma ho imparato che se ci ascoltiamo reciprocamente – ricercatori, malati, operatori sanitari – possiamo fare un pezzo di strada insieme, verso la conoscenza. Anche se noi non sappiamo tutto, non stiamo certamente fermi ad aspettare. E mentre la scienza indaga e la medicina sperimenta, c’è molto altro che si può fare oggi per queste famiglie. Servono istituzioni sane, capaci di attuare politiche sociali che diano le stesse garanzie a tutti, dal nord al sud del Paese, e che abbiano la flessibilità necessaria nei confronti di malattie che nel tempo cambiano e necessitano di interventi diversi a seconda dello stadio in cui sono. Vitale è anche aiutare un associazionismo sano e in grado di far conoscere e far valere per tutti istanze imprescindibili.

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In queste associazioni, a prendersi cura delle necessità quotidiane dei malati sono spesso i familiari stessi. Persone con un coraggio che non si può immaginare se non conoscendolo. E ci sono, ma ne servono di più, medici e professionalità capaci di ascoltare; è necessario che sia dato loro il tempo e le risorse per farlo. Queste professionalità, e queste strutture, permettono al malato e al familiare di raccontare quella nuova storia di sé, spesso estrema e difficile da decifrare, ma capace di rivelare tanta umanità. Durante i dieci giorni dedicati all’Huntington discuteremo di conoscenza e di socialità. Racconteremo le frontiere e le fatiche della scienza e della medicina, e cercheremo di capire come cooperare su scala nazionale e internazionale per evitare che i malati si chiudano in loro stessi. Cercheremo di capire come fare per sviluppare politiche sociali capaci di dar loro la possibilità di autodeterminare le loro scelte, insieme alle istituzioni sanitarie. Non vogliamo che i malati siano lasciati soli. I mattoni della consapevolezza si possono posare in modo solido solo attraverso la conoscenza provata e condivisa.