“La legge ci ha obbligato ad abortire. Ora possiamo evitare la roulette russa”

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La Stampa
Giacomo Galeazzi

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«Una legge medievale ci aveva costretto tre anni fa a tentare la sorte. E’ andata male e ci è costata molto cara, adesso finalmente rivediamo la luce». I romani Maria Cristina Paoloni e Armando Catalano, entrambi 37enni, conoscevano prima del matrimonio «il rischio di sognare un figlio in Paese in cui il legislatore boicotta la scienza a danno dei malati». Sono una delle due coppie di portatori di patologie genetiche per cui era stato sollevato il dubbio di costituzionalità sulla «famigerata» legge 40 che finora vietava l’accesso alla procreazione assistita alle coppie fertili che hanno bisogno di indagini diagnostiche pre-impianto.

Maria Cristina, ora che potete diventare genitori, qual è la strada davanti a voi?

«Ci rivolgiamo subito ad una struttura pubblica per diventare mamma e papà senza dover più tentare la roulette russa. Siamo felici ma la gioia non cancella la ferita di non aver potuto evitare un aborto per il solo desiderio di avere un bambino sano. Alla fine di un calvario senza senso né umanità ha vinto il rispetto dei diritti fondamentali delle persone. Fino ad oggi sono servite una quarantina di decisioni di tribunali, di cui quattro della Corte Costituzionale, per smantellare una legge crudele e antiscientifica come quella del 2004 sulla fecondazione assistita».

Quando ha scoperto di soffrire di una patologia genetica?

«Io e mia sorella lo sappiamo dall’istante in cui a nostro padre fu diagnosticata la distrofia muscolare di Becker. Da allora siamo entrambe consapevoli di essere portatrici sane della malattia. Non siamo malate ma abbiamo il 50% di possibilità di avere un figlio malato. Trasmissione cromosomica. Io e mio marito Armando abbiamo fatto una consulenza genetica nel 2008. Eravamo ad un bivio».

Quindi cosa avete deciso?

«Non ritenevamo giusto né economicamente sostenibile dover andare all’estero per una fecondazione assistita con selezione degli embrioni. In un primo momento ci eravamo informati e potevamo andare in Spagna o a Bruxelles ma a costi per noi proibitivi. O potevamo tentare la sorte e cercare la gravidanza per vie naturali per poi eseguire la villocentesi, il test che permette di diagnosticare anomalie cromosomiche o genetiche. Abbiamo scelto la seconda via».

E come è andata a finire?

«Nel 2012 sono rimasta incinta ed era maschio. Ma purtroppo l’embrione era malato. Avevamo una possibilità su due che lo fosse. È come giocarsi la vita a testa o croce. A quel punto ho dovuto interrompere la gravidanza con un aborto terapeutico. Un trauma terribile che mi ha gettato in uno stato indescrivibile di prostrazione fisica e psichica. È lì, in quel buio di disperazione, che abbiamo deciso di ricorrere al tribunale per ottenere la fecondazione assistita che in Italia è vietata alle coppie fertili come la nostra».

La via legale ha funzionato?

«Sì perché il tribunale ha sollevato il dubbio di legittimità costituzione della legge 40 e la Consulta ha dato ragione a noi malati. E’ disumano sapere che esiste una soluzione ma che in Italia ci è negata. Una violenza fisica e psicologica che ho pagato sul mio corpo e sulla mia mente con la ferita dell’aborto. Mi sono sentita emarginata, una cittadina di serie B. Ho provato una rabbia profonda che nessuna sentenza potrà cancellare. I danni che ho subito non hanno né ragione né logica».