Una “rete” per i cervelli in fuga

Sole 24 ore
Marco Magnani

L’Italia ha una tradizione consolidata di Paese d’emigranti. Si dice che ai circa 60 milioni di italiani che vivono nella penisola se ne aggiungano altrettanti all’estero. In passato il nostro Paese ha esportato molte “braccia” alla ricerca di lavoro; negli ultimi decenni il flusso in uscita è stato soprattutto di “cervelli”: ricercatori, medici, artisti, imprenditor i, manager, lavor ator i qualificati.

Non si tratta di brain exchange ma di brain drain: il flusso netto di capitale umano altamente qualificato è fortemente sbilanciato in uscita. Il trend è peggiorato significativamente negli ultimi anni, complici la crisi economica e il diffondersi di un generale senso di sfiducia da parte dei giovani nel futuro del Paese.

Secondo una ricerca Editutto, dal 2002 al 2012 hanno lasciato l’Italia circa 68mila laureati all’anno per un totale di quasi 700mila giovani. I costi della loro formazione è stimata in 8-9 miliardi, più o meno quanto un anno di finanziamenti all’Università. Il Rapporto Istat 2015 segnala che tra i dottori di ricerca il fenomeno raggiunge proporzioni preoccupanti: tremila dottori di ricerca del 2008 e 2010 (il 12,9%) vivono abitualmente all’estero, quasi sei punti in più rispetto alla precedente indagine (7% dei dottori delle coorti 2004 e 2006).

A fare le valigie sono soprattutto fisici, matematici e informatici. A fronte di questi dati in uscita, la capacità di attrarre talenti da altri paesi è molto limitata. Il costo economico di avere un saldo negativo di mobilità in- tellettuale è enorme. L’esportazione di capitale umano qualificato non costituisce solo una perdita di talenti e di quanto investito per formarli. Le innovazioni prodotte dai cervelli in fuga saranno infatti proprietà dei Paesi in cui sono state realizzate, dai quali l’Italia dovrà in qualche modo riacquistarle.

Conseguenza del brain drain è il cosiddetto “trasferimento tecnologico inverso” e non sorprende che l’Italia mostri un disavanzo nella “bilancia tecnologica dei pagamenti” che misura importazioni ed esportazioni di brevetti e conoscenze tecniche. Vi sono poi i costi relativi allo “spreco di cervelli”, collegati a chi resta in patria svolgendo un lavoro diverso da quello per cui si è formato.

Cosa fare? Contenere l’emigrazione qualificata imponendo vincoli e adottando politiche coercitive è un’ipotesi inattuabile in un’economia globale. Più utile sarebbe rimuovere alcuni dei problemi di fondo nel mondo accademico e in quello del lavoro mediante la lotta a nepotismo e baronismo, il sostegno di merito e trasparenza, l’eliminazione delle rigidità.

Un’opportunità è poi quella di valorizzare l’importante tradizione di università e ricerca del nostro paese. Il sistema universitario è tra i più antichi nel mondo, con Bologna, Parma e Pavia ormai prossime al millennio; l’Italia, oltre ad aver contribuito alle più grandi scoperte scientifiche degli ultimi centocinquant’anni, ha una lunga e riconosciuta tradizione di creatività e di pensiero imprenditoriale innovativo, con importanti riflessi sulla tecnologia mondiale.

Basti ricordare la radio di Guglielmo Marconi, il microchip di Federico Faggin, il personal computer dell’Olivetti. Un’altra strada importante è quella di puntare sui centri di eccellenza di cui l’Italia ancora dispone al fine di trattenere e attrarre talenti. È un a strategia che richiede notevoli investimenti ma che può essere perseguita con successo, come dimostra l’Italian Institute of Technology di Genova.

Con circa 100 milioni di euro di finanziamenti statali l’anno (e altri 25 raccolti sul mercato), dal 2003 l’Iit ha attratto un migliaio di ricercatori provenienti da tutto il mondo, prodotto oltre 3mila pubblicazioni e centinaia di invenzioni e brevetti, ed è all’avanguardia in settori quali robotica, neuroscienza, scienze cognitive, nanostrutture.

Da non sottovalutare poi un’altra carta che l’Italia può giocare per compensare, almeno parzialmente, il saldo negativo della mobilità intellettuale: sfruttare meglio la rete degli italiani all’estero. In altre parole sviluppare il “capitale relazionale” dei cervelli italiani nel mondo. L’estensione del network è significativa, la sua qualità elevatissima. Vari studi hanno evidenziato il potenziale effetto di traino della diaspora dei lavoratori della conoscenza, con particolare riferimento ai Paesi in via di sviluppo e a condizione che Paesi più avanzati promuovano rapporti di collaborazione fra i “cervelli” che hanno accolto e le loro comunità di origine.

In questo senso è molto interessante l’esperienza indiana nell’implementazione della strategia della “rete”. Negli ultimi vent’anni l’India ha valorizzato le relazioni con molti indiani che vivono all’estero, soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. La strategia è stata facilitata, tra l’altro, dagli straordinari tassi di crescita del Paese, dal miglioramento delle relazioni internazionali, dal rafforzamento dell’alleanza economico-strategica con gli Stati Uniti in funzione di contenimento della Cina. I risultati sono stati straordinari.

L’Italia non è l’India: le dimensioni – geografiche e demografiche – sono inferiori e l’economia è avanzata anziché emergente. L’azione di networking non può essere quindi sviluppata negli stessi termini. Tuttavia, tanti sono i modi per risvegliare e valorizzare il legame con il paese di origine. Ciò consentirebbe di pensare ai “cervelli” italiani all’estero come a un’opportunità da valorizzare piuttosto che una fuga senza ritorno.