Eutanasia, ecco perché la scelta di Brittany ci riguarda da vicino

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Mario Riccio

La tragica vicenda di Brittany Maynard, la giovane donna americana che, affetta da un tumore maligno cerebrale recidivante, ha chiesto il suicidio assistito, è talmente lineare nella sua drammaticità da rappresentare un esempio chiarificatore nella discussione etico e giuridica che interessa la problematica.
Alla donna in questione, peraltro neo sposa, è stata chiarito che la sua patologia, nella fase attuale, le permette una prognosi di sopravvivenza non molto superiore ai sei/otto mesi. In questo periodo andrà incontro a una condizione di decadimento cognitivo, ma verosimilmente anche ad una fase di dolori che potrebbero essere anche di difficile gestione con le più avanzate terapie antalgiche. L’alternativa potrebbe essere rappresentata dalla richiesta di una sedazione cosiddetta palliativa, un tempo definita terminale. In questa ultima condizione il paziente è definitivamente sedato, nella maggior parte dei casi tale sedazione non consente alcun contatto con l’ambiente esterno e pertanto neanche con le persone e vengono sospese ogni tipo di terapie, compresa quella nutrizionale. Tale condizione solitamente non supera una durata di sette-dieci giorni. Se ben condotta può rendere il paziente insensibile ad ogni condizione dolorosa sia fisica che psicologica, ovviamente al prezzo che il paziente sia reso come completamente isolato dal mondo esterno. Se tale procedura non è gradita al paziente o se risultasse non clinicamente efficace (solitamente la letteratura scientifica parla di fallimenti nel 4-5% dei casi), una alternativa può essere rappresentata dall’atto eutanasico o dal suicidio assistito. La differenza fra le due condizioni è ormai ben nota a tutti, tanto da non dover essere ricordata ancora una volta.

Esisterebbe anche una terza possibilità: affrontare senza alcun sostegno medico-farmacologico la fase terminale,accettandone tutte le conseguenze e relative sofferenze fisiche e psicologiche. Ora bisognerebbe chiedersi per quale motivo qualcuno vorrebbe che tale scelta, fra le tre opzioni, debba essere condizionata o obbligata da un soggetto – morale, religioso, politico, giuridico o medico – che non sia il solo titolare della propria condizione, ossia il paziente stesso.
In un Paese civile e dotato di mezzi sanitari anche avanzati, non si capisce per quale motivo un cittadino – già colpito da una tale condizione di malattia – debba rimettere ad altri la propria decisione su un atto così intimamente proprio come quella che riguarda la propria vita. Ed è per questo che la richiesta di approvare una legge che regolamenti l’eutanasia o il suicidio assistito non può più essere rimandato, non solo nel nostro Paese in verità palesemente orfano in tema di tutti i diritti civili, ma sicuramente anche a livello mondiale.