“Altro che donazioni Vannoni da me pretese 50 mila euro in nero”

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Niccolò Zancan

Le parole esatte di Davide Vannoni sono state: «Stia tranquilla, le prometto che lo rimetto in piedi». Lo diceva a questa donna con gli occhi verdi, pieni di rimpianti e di sogni interrotti: «Ripeteva che mio marito Umberto sarebbe guarito di sicuro. Servivano tante infusioni di cellule intelligenti, come le chiamava lui, ma alla fine ce l’avremmo fatta».   

Umberto Mattavelli sorride dalle fotografie appese sulle pareti di casa. Egitto. Lago di Garda. Abbracciato alla figlia Federica. È morto il 12 marzo 2012, a 61 anni, undici giorni dopo l’ultima infusione. Dopo aver sperimentato sulla sua pelle la terapia Stamina, dagli albori di Torino fino all’ospedale di Brescia. È una delle 68 vittime del primo filone dell’inchiesta. Quello per cui il procuratore Guariniello ipotizza i reati di associazione a delinquere finalizzata alla truffa e somministrazione pericolosa di farmaci. Tredici indagati, fra cui Davide Vannoni e Mario Andolina, presidente e vicepresidente di Stamina.  

Signora Mattavelli, qual è l’inizio?  

«Mio marito era un uomo forte, possente. A maggio del 2007 lo osservavo scrivere la contabilità delle sue attività commerciali. Ho notato che la mano era stranamente impacciata. Gli ha detto: “Cosa succede, Robi?”. Io l’ho sempre chiamato così. Mi ha risposto: “Da un mese faccio fatica”. Il giorno dopo eravamo all’ospedale. Diagnosi: Msa, una lenta e inesorabile atrofia multisistemica».   

Quando siete arrivati da Vannoni?  

«Due settimane dopo. Il medico dell’ospedale era stato chiaro: “Purtroppo per questa malattia non esiste una cura vera e propria”. Eravamo disperati. Avrei fatto qualunque cosa. Con mia figlia, abbiamo cercato su internet per capire. La cosa strana è che ci hanno telefonato loro».   

Loro chi?  

«Quelli di Stamina. Mi hanno detto di partire subito per Torino, che c’era questa nuova terapia».   

Via Giolitti 41, il call center del professor Vannoni. Cosa ricorda?  

«È lì che ha promesso la guarigione. Umberto ne sarebbe sicuramente uscito. Le cellule intelligenti si sarebbe fermate nella parte del cervello responsabile della malattia».  

Un miracolo a che prezzo?  

«Ci hanno messo davanti questo foglio, l’ho tenuto. Prelievo midollo: 2000 euro. Preparazione cellule: 27 mila euro. 8000 euro a iniezione, 2500 euro per la crioconservazione. Ma la verità è che abbiamo pagato molto di più». 

Quanto, precisamente?  

«Oltre 50 mila euro».   

Dati a chi?  

«Alla segretaria di Vannoni. La stessa di Torino, l’ho rivista a Brescia. Metteva i soldi dentro una busta, nessuna ricevuta».   

Non vi sembrava strano?  

«Molto. Ma io avrei venduto anche la casa per cercare di curare Robi. All’ospedale Burlo Garofalo di Trieste ho conosciuto due sposini che arrivavano dal Sud. Lui, carabiniere, malato. Hanno finito tutti i soldi per Stamina, al punto che hanno dovuto rinunciare. Non è vero che sono cure compassionevoli».  

Può indicare le vostre tappe?  

«Per prima cosa, visita dal neurologo Scarzella, a Moncalieri. È stato lui a dare il via libera alla terapia. Allora ci hanno portato al clinica Lisa di Carmagnola, per il prelievo delle cellule. È un carotaggio molto doloroso, ma dopo mezz’ora hanno dimesso mio marito».   

Dopo la prima infusione stava meglio?  

«Lui diceva di no. Ma io cercavo di vedere un miglioramento in tutto».  

Cosa diceva suo marito?  

«Ripeteva in bergamasco: “C’è qualcosa che non quadra, Milena. Quelli lì si stanno approfittando di noi”. Io lo tranquillizzavo: “Vedrai, andrà bene…”».  

Come è andata?  

«Ci facevano partire per Trieste al sabato. Ci venivano a prendere in hotel la domenica mattina. Per l’infusione, ci portavano nel reparto di pediatria, poi ci dimettevano in fretta e furia. Non capivamo neppure quale liquido ci fosse davvero dentro quelle siringhe. È stato un calvario durato cinque anni».  

In rete c’è una vostra lettera di protesta contro la sospensione delle cure.  

«Lo so. Vannoni e Andolina ci facevano firmare. Dicevano che era necessario mobilitare l’opinione pubblica. A un certo punto, Andolina mi ha detto: “Adesso spingiamo avanti i bambini. Vedrà che in questo modo la cosa passa…”».   

È passata. Perché non ha denunciato Vannoni?  

«Mia figlia avrebbe voluto farlo tante volte, ma io pensavo a quei bambini che fanno vedere in Tv. Mi sento male per loro. Per i genitori. Una volta ho chiamato Vannoni dopo una sua intervista: “La smetta di dire che sono cure gratuite”. E lui: “Le vostre sono state libere donazioni”. Ma quali donazioni? Con quale faccia? Siamo stati truffati, mio marito l’aveva capito, questa intervista la devo a Robi».  

Quando si è aggravato?  

«Subito dopo l’ultima infusione all’ospedale di Brescia. Domenica pomeriggio l’ho imboccato qui sul divano, lunedì mattina alle 8 è morto».  

Vannoni e Andolina?  

«Li ho chiamati. Urlavo, pazza di dolore. Mi hanno detto: “Ci dispiace, rimarrete sempre nei nostri cuori, eravate speciali per noi”».   

Oggi qual è il pensiero che le fa più male?  

«Secondo i medici, mio marito doveva vivere 9 anni, dalla scoperta della malattia. Invece è morto dopo 5 anni appena. Magari per cercare di aiutarlo a guarire in tutti i modi, io gli ho accorciato la vita».