Che ci fate con quei dati sul Dna? La Silicon Valley vuole il nostro corpo

Il Foglio

Roma. La 23andMe è una startup di Mountain View che ha come obiettivo quello di farci sputare dentro una provetta per prelevare il nostro Dna e fornirci, al prezzo di 99 dollari, una mappatura dei nostri geni. Le provette di 23andMe, chiuse dentro scatole colorate che quando le hai davanti ti sembra di scartare il nuovo iPhone, sono in giro dal 2007, da quando l’azienda ha svelato al mondo il suo progetto di portare il genoma alle masse. La 23andMe è stata fondata nel 2006 da Anne Wojcicki, la moglie di Sergey Brin di Google (che investì nell’impresa quasi quattro milioni di dollari, ora i due sono separati ma Google continua la sua collaborazione), insieme a due soci, Linda Avey e Paul Cusenza. Da anni la 23andMe combatte con una legislazione che non riesce a starle dietro.

Nel 2008 gli stati di New York e della California cercarono di costringerla a fare i suoi test solo dietro autorizzazione medica, ma l’azienda riuscì a ottenere tutte le licenze necessarie. Pochi mesi dopo fu nominata da Time come la “Migliore invenzione” dell’anno – e allora il kit per lo sputo costava ancora 399 dollari. Ma lunedì è arrivata la Fda, la Food and Drug Administration americana, che con una lettera ha ingiunto alla 23andMe di “interrompere immediatamente la vendita” dei suoi kit per la mappatura. Finché la 23andMe non proverà che i suoi test sono sicuri ed efficaci, dice il governo, non potrà continuare a tenerli sul mercato. Il problema è che la mappatura dei geni potrebbe convincere i pazienti a “gestire autonomamente” la propria salute – cosa che solo il governo può fare, sembra dire la Fda.

Molte delle ragioni dell’agenzia sono valide, compresa la paura che un dato falsato possa provocare terapie non richieste e invasive (un problema sollevato da altri è il rischio di discriminazioni: chi offrirà un’assicurazione a una persona sana, ma “condannata” dai geni alle peggiori malattie? Esistono leggi di salvaguardia, già ampiamente aggirate), ma questo non riduce la sua inadeguatezza: il bando alla 23andMe è basato su una legge del 1938: il Dna ancora non era stato scoperto. Dal 2007 a oggi quasi mezzo milione di persone ha sputato nella provetta e fatto il test della 23andMe. Di queste quasi metà nel corso del 2013, la gran maggioranza dopo aver letto l’op-ed di Angelina Jolie sul New York Times, in cui l’attrice scriveva di essersi sottoposta a una doppia mastectomia dopo aver scoperto con un test genetico di essere predisposta al cancro al seno.

“L’ho fatto io, lo potete fare anche voi”, scriveva Angelina, e i lettori hanno risposto in massa, anche se il test fatto da Jolie era infinitamente più efficace di quello della 23andMe – e molto più costoso. Il test si fa per due motivi: per ottenere informazioni sulla propria salute futura, sulle predisposizioni e sulle possibilità (che la 23andMe esprime con tonde percentuali) di sviluppare malattie degenerative nel corso della vita, e per ottenere informazioni sulla propria famiglia e sulla provenienza della propria stirpe. C’è anche la possibilità che 23andMe, confrontando i dati nel suo enorme database, scovi un parente che non sapevamo di avere.

Già, perché c’è un enorme database, cui i pazienti (nove su dieci) partecipano anonimamente e su base volontaria. La 23andMe soffre del morbo che affligge tutte le startup della Silicon Valley: non produce uno straccio di guadagno, i test costano tanto e sono venduti a poco. Ma come tutte le startup anche la 23andMe ha le casseforti piene della più grande commodity del Ventunesimo secolo, i dati, e non quelli che può ottenere un Facebook qualsiasi. La 23andMe cavalca l’ultima frontiera della Silicon Valley, i nostri corpi.

“Voglio 25 milioni di persone, i big data salveranno la nostra salute”, ha detto Wojcicki a Elizabeth Murphy di Fast Company. E’ quello che pensa anche Google del quasi-ex-marito Brin, che a settembre ha annunciato un progetto, Calico, per sconfiggere la morte. Ma sono tante le aziende, per prima Big Pharma che da anni corteggia 23andMe, che sanno che dai nostri dati genetici (e biometrici, e sanitari) si può ricavare una montagna di soldi. A giudicare dalla fiducia con cui dice di poter risolvere il conflitto con la Fda, lo sa anche Wojcicki.