La sanità malata

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Corriere della sera
Simona Ravizza, Gianni Santucci

La dottoressa dell’ospedale Santobono di Napoli s’è accontentata di regali miserabili. Un paio di pantaloni Levi’s; una felpa Paul Frank. Non sapeva, forse, che due sue colleghe del Policlinico Gemelli di Roma avevano strappato ricompense più sostanziose. Due parcelle (10 e 8 mila euro) per consulenze finte e lezioni mai tenute. A un medico del San Matteo di Pavia (e direttore di un dipartimento universitario della stessa città) sono arrivati invece 30mila euro, accreditati sul conto della sua onlus. In questo caso, non c’è stato neppure bisogno di uno schermo: «Contributo liberale». In cambio, questi e altri 32 medici hanno prescritto per anni ormoni per la crescita a bambini di mezza Italia, senza alcuna esigenza di salute. L’hanno fatto accettando gli «incentivi» offerti da dodici informatori scientifici della multinazionale Sandoz (che ha contestato i comportamenti dei suoi collaboratori e ha inviato a tutti lettere di sospensione). Vacanze gratis — a volte con famiglia —, gioielli, pc, borse di pelle, bonifici bancari. Giro d’affari complessivo: almeno 500 mila euro. L’indagine è partita dai carabinieri del Nas di Bologna; la coordinano la Procura di Rimini e, con il pm Mirko Monti, la Procura di Busto Arsizio (Varese).Nelle prossime settimane dovrebbero arrivare i rinvii a giudizio.

Sei miliardi di danni

La Tangentopoli medica non è mai finita. Sono passati vent’anni. C’era Giuseppe Poggi Longostrevi, ras della sanità privata lombarda, arrestato nel 1997 e morto suicida nel 2000. Distribuiva mazzette ai medici. Loro prescrivevano esami inutili e costosi da fare nelle sue cliniche. La Regione rimborsava. Perché la corruzione era così allora, e rimane la stessa oggi. Reato senza vittima. Paga lo Stato. Paga il sistema sanitario nazionale. Che dopo (e nonostante) la Tangentopoli storica, non ha imparato a difendersi. E s’è ritrovato invece vittima di una corruzione sempre più sofisticata. Mazzette per saltare le liste d’attesa; mazzette per prescrivere farmaci; mazzette per pilotare gli appalti (dalle mense alla costruzione dei nuovi ospedali); mazzette per accreditare le cliniche private nel sistema dei rimborsi pubblici. Per comodità, si dice ancora mazzetta. La forma della tangente però è «esplosa»: non più denaro in contanti o su conti esteri per finanziare (soprattutto) i partiti, ma una trasformazione della ricompensa in benefit. Viaggi, vacanze, auto, escort. Tangenti mascherate da consulenze. Sistema di relazioni fluido. Per una corruzione liquida e sempre più dilagante. Tutto questo, oggi, e per restare solo alla sanità, costa almeno sei miliardi di euro all’anno. Denaro inghiottito dalle truffe, dal malaffare, dalle frodi. Sottratto alla cura dei malati.

II dossier

L’hanno chiamato Unhealthy health system. Concetto base: il sistema sanitario è malato. O peggio: più che malato, è «sotto attacco». Indebolito da disorganizzazione e inefficienza. Di tutto questo, e dei possibili rimedi, si occupa il report elaborato da Davide Lorenzo Segato per il Centro Ricerche e Studi su Sicurezza e Criminalità e da Transparency International Italia. Sarà pubblicato sul sito transparency.it entro la fine di novembre, in concomitanza con una campagna di sensibilizzazione con il motto «Svegliati!». Incitamento ai cittadini a prendere coscienza e ribellarsi. Idee e proposte saranno rilanciate anche attraverso Twitter e Facebook. «La Lettura» presenta il report in anteprima, partendo da un dato chiave. Anno 1990, stagione florida di Tangentopoli: il bilancio della sanità era l’equivalente di 41 miliardi di euro. Oggi la spesa sanitaria dello Stato è salita a 111 miliardi di euro e impegna circa il 75 per cento dei bilanci delle Regioni. È questo il macroscopico bottino esposto alla corruzione e alle truffe. Un territorio di caccia sconfinato. Spiega il dossier: «Secondo le più recenti analisi disponibili, il tasso medio di corruzione e frode in sanità è del 5,59 per cento, con un intervallo che varia tra il 3,29 e il 10 per cento. Per la sanità italiana (…) questo si traduce in 6 miliardi di euro all’anno sottratti alle cure per i malati». Per avere un ordine di grandezza: il danno complessivo di tangenti, sprechi e truffe vale più dell’abolizione dell’Ima sulla prima casa. E con la crisi dei bilanci pubblici, il danno è sempre meno sopportabile. Il report di Transparency identifica il ventre molle della sanità pubblica in cinque settori cardine: la spesa per i farmaci, i rimborsi alle strutture private, gli appalti, la lottizzazione dei dirigenti, le liste d’attesa.

Milioni di ricette

Non tutti i m miliardi che lo Stato spende per la salute dei cittadini sono «a rischio». Lo sono però i 9,9 miliardi di euro che servono per pagare le medicine che i cittadini ritirano in farmacia. Un sistema sconfinato (un miliardo di confezioni; 590 milioni di ricette). E scarsissimi controlli. È per un’indagine su alcuni informatori scientifici del farmaco che molti specialisti di ospedali pediatrici di fama come il Bambin Gesù di Roma, il Gaslini di Genova e il Regina Margherita di Torino sono finiti nell’inchiesta sugli ormoni inutili prescritti ai bambini. Storia balorda. Ed emblematica. Esempio dei rischi legati a tutta la «catena dei farmaci». Dalle tangenti di «basso profilo» (regali ai medici), si sale fino a un livello di corruzione più profondo. E, secondo il report di Transparency, anche molto più pericoloso per la salute pubblica: «I rischi principali sono dovuti (…) alla perdita di indipendenza della comunità scientifica, condizionata dai finanziamenti delle aziende farmaceutiche».

Operazioni inutili

Mercoledì scorso, 6 novembre 2013. Aula della quinta sezione della Corte d’Appello di Milano. Il giudice conferma la condanna a 15 anni di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica della clinica privata convenzionata Santa Rita di Milano. E il medico che nelle telefonate intercettate dalla Guardia di finanza diceva: «Ma se di trauma toracico te ne arrivano cinque, fai il calcolo. Sono 70mila euro…». Il chirurgo è stato arrestato nel 2008 per avere effettuato interventi inutili o dannosi su 80 pazienti, in modo da gonfiare i rimborsi ottenuti dal servizio sanitario. Obiettivo, vedersi aumentare lo stipendio in proporzione agli incassi che il suo iperattivismo chirurgico assicurava alla casa di cura. Quelle parole del chirurgo della Santa Rita introducono al filone nero dei rischi nel rapporto tra sanità pubblica e privata. Oggi le proporzioni sono queste: in Italia ci sono 542 ospedali pubblici (con 149 mila posti letto), e 621 ospedali privati, ma accreditati con il sistema sanitario nazionale (66 mila posti letto). In sostanza, il settore pubblico «compra» dai privati un monte di servizi medici — dagli esami agli interventi chirurgici — che paga in totale 8,9 miliardi all’anno. È in questo flusso di denaro che il rischio truffa-corruzione raggiunge l’«allarme rosso». Tutto ruota intorno ai Drg (Diagnosis-related groups), e cioè il costo di una prestazione rimborsato dalle Regioni. L’inchiesta su Brega Massone ha svelato una sorta di bulimia medico-economica: fare molti Drg, privilegiare i più redditizi, e così aumentare il fatturato. In questo campo il dossier di Transparency individua fattori di rischio non legati soltanto all’etica del medico, ma in qualche modo favoriti dall’organizzazione del sistema. Gli schemi criminali più frequenti per aumentare i profitti sono tre: «falsificazione» del Drg per far risultare un intervento più remunerativo di quello effettuato; «interventi chirurgici inutili o invalidanti»; moltiplicazione dei Drg per uno stesso paziente, che viene magari mandato dalla chirurgia alla riabilitazione «spezzando» il percorso clinico, come se si trattasse di due ricoveri. Se questi sono i meccanismi per aumentare i guadagni degli imprenditori disonesti della sanità, la conseguenza è che ci sarà qualcuno disposto a fare carte false pur di entrare nel club degli ospedali privati accreditati col sistema pubblico. In questo passaggio, da reati come la truffa (sui Drg) si arriva alla corruzione vera e propria. Come dimostra una sentenza della Corte dei Conti pubblicata il 18 febbraio 2013. Quel giorno Giulio Gargano, ex assessore regionale ai Trasporti del Lazio nella giunta di Francesco Storace (ex An), viene condannato a pagare un milione di euro per danno all’immagine dell’amministrazione pubblica. La cifra corrisponde alla «tangente» presa da Gargano, inquisito per corruzione per aver favorito l’accreditamento con il sistema sanitario di una casa di cura fantasma. La «Centro Romano San Michele srl», al momento dell’autorizzazione (gennaio 2005), aveva stanze vuote al posto dei 168 letti previsti. E non c’erano tracce di macchinari, né di medici.

Ospedali fantasma e liste d’attesa

Ci sono cliniche private convenzionate inesistenti, e ci sono ospedali pubblici già finanziati dallo Stato che non vedono mai la luce. Con uno spreco infinito di fondi pubblici. quando il 21 ottobre 2004, al quartiere Ponticelli di Napoli, viene stipulato il contratto di costruzione e gestione dell’ospedale del Mare per oltre 210 milioni di euro, la fine dei cantieri è prevista entro il 2009. Dieci anni dopo l’ospedale non c’è ancora. È stata aperta un’indagine della Procura per falso ideologico, truffa ai danni dello Stato e interessi privati in atti d’ufficio. Denaro perso: 26 milioni di euro. È la stima della Corte dei Conti che, con il magistrato Antonio Buccarelli, denuncia: «Dai fatti si deduce l’assoluta incapacità del management dell’Asl nelle direzioni che si sono alternate — cioè Angelo Montemarano (poi diventato assessore alla Sanità nella giunta di Antonio Bassolino, Pd, ndr), Mario Tursi e Giovanni Di Minno — a gestire in maniera seria e competente un’iniziativa strategica e di rilevantissimo impegno economico». Comportamenti ambigui. Protratti per anni. Neppure un mese fa, allo stesso trio Montemarano/ Tursi/Di Minno — e ad altri 12 funzionari — è stato contestato di avere dilapidato 32 milioni di euro per avere pagato due volte i fornitori dell’Asl Napoli I. In queste storie i reati si mescolano all’inefficienza. E questo è uno dei motori della corruzione. Sfruttando i buchi di una burocrazia ingolfata e poco trasparente, imprenditori e funzionari pubblici stringono gli accordi neri. Ecco perché uno dei capitoli di spesa più a rischio sono i 34 miliardi di euro l’anno destinati agli appalti per le forniture ospedaliere. Dall’acquisto di siringhe alle mense e alle pulizie, fino alla costruzione di nuovi ospedali, che impegna altri due miliardi. «In tempi di ristrettezze economiche sempre più spesso le aziende sanitarie utilizzano contratti complessi di partnership pubblico-privato (come concessioni, appalti misti, leasing) — spiega Veronica Vecchi della Scuola di direzione aziendale della Bocconi —. Sono soluzioni che, se utilizzate bene, permettono di far emergere gli operatori più innovativi e competitivi. In realtà, spesso accade che dietro queste mega operazioni si nascondano comportamenti opportunistici». In vent’anni, una condizione di base che favorisce la corruzione è rimasta immutata: la gestione opaca e inefficiente dei servizi pubblici è un fattore di per sé criminogeno. Spinge a cercare scorciatoie illegali. I pazienti che per mesi e mesi restano in lista d’attesa sono più deboli. Disponibili a trovare una via d’uscita «alternativa» su proposta di medici disonesti. La Procura di Firenze sospetta che perfino Paolo Macchiarini, considerato il mago dei trapianti di trachea e celebrato dal «New York Times», abbia giocato sulla fragilità psicologica di malati (anche in fin di vita) per spingerli a operarsi a pagamento in cliniche private. Per convincerli — e aumentare i suoi guadagni — il chirurgo, tutt’ora sotto indagine, avrebbe prospettato liste di attesa all’ospedale Careggi più lunghe della realtà (tre mesi contro sette/quindici giorni).

Manager «tesserati»

Del resto, tutto può accadere in una Sanità in cui i vertici ospedalieri sono scelti non per merito, ma perla tessera di partito. Il report di Transparency indica nella lottizzazione un fattore di rischio trasversale per tutte le degenerazioni criminali. il manuale Cencelli è talmente rodato che, nell’ultima tornata di nomine della Regione Lombardia (dicembre 2010) perfino l’allora assessore alla Sanità, Luciano Bresciani (Lega), non si è nascosto: «La logica nella nomina dei direttori generali di Asl e ospedali è legata al peso del voto espresso dalla popolazione — è stata la sua ammissione —. Le proporzioni saranno pesate sul volume di preferenze». Dopo il voto, il consenso ottenuto della Lega dava «diritto» a 19 manager su 45. Un numero, guarda caso, perfettamente rispettato nella scelta dei direttori generali. Gli altri 26 sono toccati al Pdl, in linea con il 57 per cento delle preferenze. Tre mesi dopo quelle nomine, esplode il caso San Raffaele che svelerà gli intrecci e il malaffare nella sanità lombarda. Fino a travolgere l’allora governatore, Roberto Formigoni, finito nel registro degli indagati per corruzione.