How economy goes wrong

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Paolo Bianco

Dopo l’articolo dell’Economist “How Science Goes Wrong”, su questo blog abbiamo pubblicato una lettera di Elena Cattaneo intitolandola “How Science Goes Right”. Il dibattito continua con questo intervento di un altro ricercatore biomedico di punta, Paolo Bianco, che dice: l’Economist ha ragione ma non è la scienza che deve cambiare sé stessa, è l’economia che deve cambiare il proprio rapporto con la conoscenza. “How Economy Goes Wrong”, appunto. 

Cara Anna, l’epoca del grande successo della scienza, dice lo stesso articolo dell’Economist, è quella che comincia dalla fine della seconda guerra mondiale. Quell’epoca è segnata e definita da alcuni fatti precisi: è l’era di Vannevar Bush e del finanziamento pubblico alla libera ricerca biomedica, nonché del finanziamento industriale a ricerca e sviluppo industriale. E’ l’epoca in cui la scienza è “bene comune” e per questo finanziata con denaro pubblico. E’ l’epoca che eredita dal progetto Manhattan l’idea che la scienza sia strategicamente utile, in tempi di guerra calda e in tempo di guerra fredda.

Nessuno coglie, neanche l’articolo dell’Economist, il punto ineludibile che quel periodo finisce già agli inizi degli anni Ottanta, ed è non da quell’epoca, ma esattamente dalla sua fine, che quel che l’Economist descrive nasce.  Così come l’economia mainstream è sostituita dal pensiero “neoliberal”, la pubblicazione è sostituita progressivamente dal brevetto, il finanziamento pubblico alla scienza si avvia alla rottamazione, la scienza si commercializza, si giustifica solo in quanto utile o “translational”, diventa oggetto di misura commerciale (che altro crediamo che siano impact factor e H-index, se non sistemi metrici convertibili in valore finanziario?). Più in generale, l’epoca in cui il sapere è un valore umano e civile, compatibile con la sua rilevanza strategica militare, e funzionale allo sviluppo industriale ma da questo indipendente, sfuma in quella in cui il sapere è tutt’al più utile all’innovazione commerciale direttamente perseguita in ambito accademico, o non è.

Ovvero, la conoscenza non è più un valore; niente come il mercato veicola e processa per noi tutto quanto metta conto sapere per partecipare al mercato; ed è più utile essere ignoranti, perché un corpo collettivo di ignoranti possiede collettivamente più conoscenza di quanto ogni individuo possa mai utilizzare e possedere.  Tutto questo è scritto, è il cuore pulsante del pensiero economico dominante nel mondo, dalla Cina alla California, dal Brasile all’India. La fine della guerra fredda e la caduta del muro di Berlino, lo smantellamento della ricerca industriale Bell laboratories compresi, l’outsourcing e il biotech, la transizione alla “translation”, l’economia globale, pare che non esistano né per scienziati né per intellettuali interessati alla scienza, ma invece esistono, e sono la ragione dei mutamenti profondi che l’Economist descrive.

Tutto quello che l’Economist dice così bene è vero. Meglio sarebbe stato spiegarne almeno en passant le ragioni. Che niente hanno a che fare con il funzionamento interno della scienza, e meno ancora con i suoi principi filosofici. Non servono quindi catechismi sul metodo scientifico e la sua autocorrezione, non serve far finta che i 7 milioni di “scienziati” siano 7 milioni di Newton, non serve trattare la scienza come una realtà metastorica, che mai ma proprio mai è stata.

Non serve dire che della scienza ci si può fidare. Serve aprire gli occhi sul mondo reale, vedere, e dire, che si vive in un’epoca storica che nell’attribuire valore commerciale alla conoscenza (the marketplace of ideas) toglie alla conoscenza ogni altro valore e la sua stessa natura, perché, parbleu, il valore della conoscenza é cognitivo e non di mercato. Sarebbe bello se tra tanto filosofeggiare di scienza, qualcuno si rendesse conto che la “knowledge based economy” è esattamente il contrario di quello che si crede: ovvero, la economy based ignorance, filosoficamente teorizzata da fior di pensatori economici e premi Nobel per l’economia, e messa in pratica da schiere di think tank e lobby nel mondo.

La quale “economic ignorance”, pervasiva com’è (da dove crediamo mai che venga il populismo) si accampa estesamente nella cosiddetta “comunità scientifica”. Che non è  mai stata una metafora della parrocchia, non è più un club di pensatori, ed è ormai semplicemente una parte del mercato. Non è la scienza che deve cambiare se stessa, perché non è la scienza che ha cambiato se stessa in peggio. E’ un modo di intendere l’economia e la conoscenza come parte di essa, che lo ha fatto; è l’economia allora che deve cambiare prima di distruggere se stessa una volta annientato il senso della conoscenza.