Viaggio organizzato a cercare la buona morte

Libero Quotidiano
Riccardo Paradisi

La cronaca come la storia può avere il senso dell’umorismo. Noir in questo caso. Era da qualche settimana che i radicali italiani insistevano per un incontro con la presidente della Camera Laura Boldrini per incassare un impegno sulla legalizzazione dell’eutanasia. Il 28 ottobre Boldrini riceve Marco Cappato, Filomena Gallo, Mina Welby e una pattuglia di attivisti pro-eutanasia, li ascolta e riconosce che «il tema è molto sentito e che va affrontato, perché è importante la libertà di scelta». Ironia (noir) della cronaca: il 28 è il giorno della finale di Miss Italia, la kermesse additata come incivile e mortificante dalla presidente della Camera. La libertà di sfilare e gareggiare in una gara di bellezza no, ma la libertà di farla finita con la vita si. C’è di che scomodare la psicanalisi. Un tema caldo quello eutanasico rilanciato da un susseguirsi di suicidi eccellenti.

Lo scorso 5 ottobre il regista Carlo Lizzani si è gettato dal terzo piano del suo appartamento romano, nel 2010 Mario Monicelli si era buttato dal quinto piano del San Giovanni, nel 2002 Franco Lucentini si lasciò inghiottire dalla tromba delle scale del suo appartamento torinese. Le associazioni vicine ai radicali contestano che il suicidio debba essere un fatto traumatico e auspicano anche in Italia una legge che consenta a cliniche attrezzate di spedirti dolcemente là dove non si ritorna, con procedure pulite: niente schianti, niente sangue. Come accade in quelle cliniche svizzere che ti assistono nel suicidio: la fine che si è scelto Lucio Magri, il fondatore del Manifesto, due anni fa.

Già la Svizzera. E l’Europa. In Belgio si sta discutendo se estendere la morte on demand ai malati di Alzheimer che abbiano espresso la volontà prima dell’insorgere della malattia. La Corte europea dei diritti dell’uomo un paio di settimane fa ha invece accolto la richiesta del governo svizzero di sottoporre una delle sue recenti decisioni sul suicidio assistito alla Grande camera del tribunale di Strasburgo. La controversa sentenza dava ragione ad una ottuagenaria stanca di vivere che si era lamentata per non aver potuto ottenere una dose letale di pentobarbital. La Corte europea ha accettato di rinviare il caso alla sua Grande camera chiedendo però alla Svizzera di chiarirsi le idee in proposito. In attesa della sentenza vale la pena leggere sul tema un romanzo dell’olandese Peter Drehmanns, è una storia che parla dei via della morte.

Si chiama L’accompagnatore (Meridiano Zero, 267 pagine, 16,0 euro) e racconta la vita di Leo Zonderland, chiamato esemplificatamente «il corriere dei cadaveri«, uno che per lavoro porta da Amsterdam in una clinica della morte di Zurigo i «suicide tourists», che vogliono «morire senza rischi e in modo asettico». ll lettore segue i tre viaggi di Leo respirando un clima di cupezza surreale. La prima viaggiatrice, la signora R. ha abbandonato le inutili cure psichiatriche a cui era sottoposta e ha deciso di arrendersi. Ne ha abbastanza della vita anche il secondo viaggiatore, il signor M., un ex archivista logorroico e impotente, così come la signora W., ex igienista dentale che «soffre di vergogna». Tre persone che viaggiando verso la morte affidano le loro ultime riflessioni al loro necroforo che li ascolta e li asseconda anche se la sua stessa funzione gli impedisce di dare loro una qualsiasi speranza.

Una situazione che Leo tenta di esorcizzare rompendo il silenzio chiacchierando con i suoi clienti o leggendo i messaggi pubblicitari lungo la strada o ascoltando musica e notiziari alla radio della sua Volvo. Ma poi si arrende all’evidenza e si confessa: «Sono perfettamente consapevole di esistere solo in virtù delle persone che non vogliono più esistere». Domanda: e se ci fosse un nesso tra questo impulso suicidarlo e il fastidio procurato dalla croce esposta in scuole e ospedali? Quella croce che da duemila anni dà un senso allo scandalo del dolore e della debolezza che gli antichi, pur saggi, preferivano evitarsi, non tenendo in gran considerazione categorie deboli come vecchi, bambini e malati, materiale d’ingresso, d’uscita e di scarto di una vita che dava senso a se stessa. Che la spinta generale fosse questa lo aveva intuito del resto tutta la migliore narrativa distopica del Novecento da Orwell a Huxley passando per Dino Buzzati.

A proposito di Buzzati. E proprio all’autore del Deserto dei tartari che s’ispirano le atmosfere di un oggi riabilitato film del 1977 scritto e diretto da UgoTognazzi. Il film si chiama I viaggiatori della sera scritto e diretto da Ugo Tognazzi, tratto dall’omonimo romanzo di Umberto Simonetta, ed è ambientato in un immaginario futuro. Un futuro in cui, quando una persona raggiunge una certa età viene costretta a trasferirsi in un villaggio per anziani nel quale, tramite una lotteria può vincere una crociera. In realtà gli anziani vengono semplicemente soppressi liberando il mondo del loro peso. Qualcosa di meno consolatorio e fatalistico delle Invasioni barbariche di Denys Arcand (e di più di Knockin’ on Heaven’s Door di Thomas Jahn, su due malati terminali che fuggono dall’ospedale per vedere il mare per l’ultima volta). Che questo invito a sparire e lasciare spazio del resto oggi non abbia più bisogno di coazioni e venga introiettato spontaneamente è qualcosa che inquieta molto.