Il caso Stamina: ragione e pentimento

L’Unità
Luca Landò

Un passo indietro, un passo avanti. Il balletto sul caso Stamina sembra finalmente terminato, lasciando sul parquet dell’Italia parecchia confusione e molta delusione. Sono confusi i cittadini, che hanno assistito per mesi a un dibattito privo di senso, dove argomenti di carattere emotivo sono stati mischiati a considerazioni esclusivamente scientifiche, come se i primi potessero influenzare le seconde. Sono delusi i malati e le loro famiglie, perché il vero risultato della sperimentazione approvata con un decreto dall’ex ministro della Salute Balduzzi, è stato quello di alimentare un’illusione umanamente comprensibile ma scientificamente infondata. La decisione di annullare la sperimentazione, e destinare alla ricerca sulle malattie rare i tre milioni di euro previsti, va dunque salutata con favore. Perché era inaccettabile che un Paese che investe in ricerca proprio poco, accettasse di spendere fondi per una «ipotesi» che di scientifico non aveva proprio nulla.

Lo ha detto a chiare lettere un editoriale di Nature, la più importante rivista scientifica internazionale, definendo quella del metodo Stamina una ipotesi «neppure sbagliata»: nel senso che non andava nemmeno presa in considerazione. Proprio quello che fece nel 2010 l’ufficio brevetti americano gettando la richiesta di registrazione direttamente nel cestino, perché nella sua descrizione c’erano elementi di plagio tratti da uno studio condotto da due ricercatori ucraini. II metodo Stamina, giova ricordarlo, è stato messo a punto da Davide Vannoni, laureato in psicologia ma senza alcuna esperienza validata in campo biologico, tanto meno in quello ultraspecialistico delle cellule staminali. Vannoni però dichiara di aver trovato un modo per curare alcune malattie degenerative del sistema neurologico: preleva alcune cellule staminali dal midollo osseo, le tratta «in modo opportuno» con acido retinoico diluito in etanolo e le trapianta nel sistema nervoso del paziente dove, sostiene Vanoni, si trasformerebbero in cellule nervose (neuroni) rallentando cosl il decorso delle malattie neurodegenerative.

C’è però un problema. Anzi due. Il primo, come ha detto più volte Elena Cattaneo, da poche settimane senatrice a vita ma da molti anni biologa di livello internazionale, nessuno ha mai dimostrato che le cellule staminali tratte dal midollo osseo possano trasformarsi in cellule del sistema nervoso. Il secondo, che Vannoni si è a lungo rifiutato di rivelare nel dettaglio la «ricetta» del trattamento riservato alle cellule prima del trapianto, facendo sorgere sospetti all’interno della comunità scientifica internazionale. Un altro colpo arriva pochi mesi fa quando Shinya Yamanaka, premio Nobel per la Medicina nel 2012 per i suoi studi sulle cellule pluripotenti e presidente della Società internazionale perla ricerca sulle celule staminali, afferma che «in letteratura scientifica non esiste una chiara evidenza che le staminali mesenchimali (come quelle del midollo osseo, ndr) abbiano una qualche capacità di migliorare condizioni di tipo neurologico, né esiste una evidenza convincente, ottenuta in trial clinici, che questo tipo di cellule possa offrire benefici a pazienti neurologici».

Quello del governo è dunque un passo avanti, ma che pone rimedio a quel pericoloso passo indietro compiuto negli ultimi giorni del governo Monti. Dal punto di vista algebrico la somma è zero, ma dal punto di vista politico e culturale il bilancio è negativo. Perché è incomprensibile che, dopo il caso Di Bella, il nostro Paese abbia di nuovo rischiato di finanziare un’altra ricerca per motivi che con la scienza non hanno nulla che fare. Ed è inaccettabile che, per gli stessi motivi, si sia preferito lasciar credere ai malati e alle loro famiglie che una cura davvero ci fosse. Un insulto alla ragione, un colpo alle emozioni: non era meglio pensarci prima?