I dubbi sul metodo Stamina

La Stampa Tuttoscienze
Paolo Bianco, Elena Cattaneo e Michele De Luca

Diciottomila famiglie hanno chiesto accesso al metodo Stamina, dice Stamina. Se moriranno – dice Stamina sinistramente – sarà perché non avranno avuto il suo metodo dallo Stato. Ma il metodo non si sa cosa sia: non è mai stato pubblicato, non è mai stato brevettato. Le due domande di brevetto, respinte da Europa e Usa, non contengono novità e non fanno capire in che cosa il metodo consista e come riprodurlo in altri laboratori e ospedali. Stamina e il suo sponsor commerciale, Medestea, dicono che le cellule del metodo sono «sicure». Nel dirlo si riferiscono probabilmente alle cellule mesenchimali, usate da altri in 320 trial clinici controllati nel mondo (sette in Italia), ma coltivate in condizioni conformi alle norme, e per questo diverse dal metodo stesso. Stamina e lo sponsor commerciale dicono che solo il metodo conferisce alle cellule «mesenchimali» il loro potere terapeutico. Spiegano che è per questo che le stesse cellule, coltivate in condizioni di sicurezza nella «cell factory» del San Gerardo di Monza, non hanno prodotto alcun beneficio in cinque bambini con Sma, come recentemente pubblicato. Stamina dice che, se lo Stato non consente di coltivare le cellule in un modo che semplicemente viola la legge europea, allora «si fa l’eutanasia a questi figli». Ovvero, le cure Stamina, che funzionano solo se le cellule sono coltivate in modo che le leggi europee vietano, salvano la vita e rimuovono la sofferenza. Ma, allora, non sono «cure compassionevoli». Se una «cura» ridà il movimento delle braccia a chi lo abbia perso, come viene detto in tv, non è un compassionevole palliativo. E’ la cura di elezione, è quella che funziona. E’ quella che ci vuole per Sofia e per tutte le Sofie del mondo. E bisogna allora renderla disponibile. Non a Brescia soltanto. A New York, a Tokyo e ovunque ci siano malati con le stesse malattie. Ma non esiste altro modo per farlo che rivelare quale sia la «cura», sperimentarla formalmente per dimostrarne gli effetti, comunicare i risultati nella lingua che tutti i medici capiscono: con dati, controlli, pubblicazioni. Ma Stamina, quanto meno fino ad oggi, non ha voluto. Non vuole dire quale sia il metodo, non vuole produrre le cellule secondo norma, non vuole «trials». Vuole «curare» 18 mila persone con una cura mai provata. Decida, Vannoni: o lei ha inventato un «metodo» irripetibile e miracoloso oppure lei somministra un semplice palliativo, e di palliativi ce ne sono. O usa le stesse cellule che usano altri 320 studi ufficiali nel mondo, sette dei quali in Italia, o usa cellule diverse. Dica come stanno le cose. E detto questo, sperimenti e pubblichi i risultati. Non lo impedisce proprio nessuno. La piccola Sofia può essere trattata col metodo Stamina, se il metodo c’è e se così vuole la famiglia, in uno studio trasparente e controllato. Non c’è bisogno di tribunali e reti di avvocati militanti. Medestea, la casa farmaceutica che supporta Stamina, può finanziare uno studio clinico, come fa ogni casa farmaceutica che sviluppa un farmaco. E spieghi Vannoni per quale motivo compassionevole una «multinazionale» farmaceutica ha l’esclusiva commerciale del «metodo», visto I’odio che professa per le multinazionali. Quelle terapie, per le leggi europee sono «terapie cellulari avanzate». Perché? Perché comportano rischi diversi da quelli dei trapianti: le cellule sono coltivate in vitro, e i trapianti no; sono cellule dell’osso che Vannoni vuol mettere nel cervello, e non nell’osso; e- Vannoni dice- sono cellule dell’osso che lui trasforma in cellule del cervello col suo «metodo». Lui e le multinazionali che lo sostengono vogliono invece che siano «trapianti». Così, a noi sembra che attraverso un garbuglio azzeccato non sarebbe più necessario a chi finanzia Stamina pagare il costo che produrre cellule rispettando la sicurezza dei pazienti impone; né sarebbe più necessario sperimentare davvero, per capire se una speranza c’è davvero. Stamina potrebbe chiedere il «contributo dello Stato» che Vannoni cita nel suo post del 3 marzo 2013: 18 mila contributi sono un bel numero. Quel contributo, lo Stato, anzi i cittadini, sarebbero felici di pagare. Ma vorrebbero sapere se per salvare vite o per pagare un obolo compassionevole. Il sistema sanitario è ad alto rischio di default. Non può permettersi l’olio di serpente. E non si offenda nessuno, se così qualcuno chiama le «staminali». L’olio di serpente è la citazione di un classico (Clark Stanley) e fa parte della storia della medicina, anche se in negativo. Si chiamava, un secolo fa, «nostrum remedium» e chi lo vendeva diceva curasse tutto. Ma non curava niente. Scomparve quando fu creata, a protezione dei malati, la prima legge di vigilanza sui farmaci e il primo antecedente dell’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco.