Stamina, la battaglia arriva in aula

L’Unità
Claudia Fusani

Dietro la speranza di migliaia di famiglie c’è un business di centinaia di milioni di euro. La speranza non ha prezzo, anche se al posto di una guarigione totale ci può essere «solo» il rallentamento di una malattia, in ogni caso un parziale sollievo. E quando si parla di cure mediche sperimentali è sempre difficile stabilire la verità. L’importante però è dire le cose come stanno, senza barattare o nascondere pezzi importanti della storia. Quindi, non solo che il metodo Stamina (onlus che fa capo al professor Davide Vannoni e che cura malattie rare neurologiche grazie alla somministrazione di cellule staminali mesenchimali) è tuttora privo di brevetti e che è stato sottratto, in quanto classificato trapianto e non farmaco, alle autorizzazioni delle agenzie nazionali e internazionali del farmaco (Aifa, Ema, Fda). Va aggiunto, anche, che il metodo Stamina sarà molto probabilmente un gigantesco business a favore di Stamina e Medestea, la holding attiva nel settore del parafarmaceutico che dal 2011 insieme con Stamina gestisce la cura sperimentale diventata un vero e proprio caso nella comunità scientifica internazionale. Business alle spalle del servizio sanitario nazionale. Il perché è presto detto: già adesso sarebbero 15mila le richieste di accesso alla cura; ogni ciclo di cure (in media 5 iniezioni) per ogni paziente dovrebbe costare circa 30mila euro – costo stimato se si rispettano i parametri di sicurezza Gmp. Il giro di affari totale sarebbe così di circa 450 mila milioni. Chi affronterà questa spesa? Nulla è stato ancora deciso. O scritto. Ma poiché il capitale sociale di Stamina è di 8 milioni di euro, risulta difficile immaginare che Vannoni e Merizzi (Medestea) possano affrontare la «partita» senza il supporto del servizio sanitario nazionale. E quindi delle Regioni. Un gigantesco ritorno a costo quasi zero (a parte i 30 casi in Italia che stanno trattando) Considerato che nessun brevetto è ancora mai stato rilasciato. Quella che inizia è una settimana decisiva per le «terapie compassionevoli», ovvero cure da adoperare in caso di malattie incurabili purché la sperimentazione sia in fase avanzata e il paziente ne tragga beneficio. Il decreto Balduzzi potrebbe andare in aula alla Camera per il via libera definitivo. E già stato approvato il 9 aprile al Senato dalla Commissione speciale durante quella specie di interregno di oltre due mesi tra elezioni e nuovo governo in cui sono state comunque prese decisioni. Il testo uscito da palazzo Madama ha scatenato la comunità scientifica internazionale, diviso l’opinione pubblica e armato in una sorta di guerra santa centinaia di famiglie disperate convinte o illuse di aver trovato se non la soluzione almeno una speranza di soluzione. Consapevoli, o forse no, di essere cavie di un esperimento che sarà pagato dallo Stato. La maggior parte degli emendamenti passati al Senato riguarda infatti l’articolo 2 del decreto. Prevede la deroga per «continuare le cure con il metodo Stamina per i pazienti già in terapia» e che la «sperimentazione delle terapie cellulari non ripetitive potrà essere svolta in strutture pubbliche per diciotto mesi». A quel punto la polemica, in corso da un paio d’anni, è uscita dall’ambito scientifico ed è diventata diffusa. Popolare. E andata nelle piazze, nelle tv, soprattutto nel web, ha trovato testimonial di richiamo. Da una parte la comunità scientifica a tutti i livelli che accusa il governo italiano di «svincolare le terapie a base di staminali da ogni supervisione regolatoria classificandole non più come terapia ma come un trapianto di tessuti». Ha scritto Nature, la famosa rivista scientifica: «E sbagliato sfruttare la disperazione di disabili e malati terminali ed alimentare false speranze. Ed è sbagliato cercare di usare questi pazienti come animali da laboratorio bypassando le agenzie regolatorie». Giusto, scrive Nature, il trattamento a base di staminali che «in fretta va portato dal banco di laboratorio al letto del malato. Ma il trattamento non regolamentato è preoccupante». Dall’altra c’è la piccola Sofia – simbolo e nome della battaglia, tre anni, affetta da leucodistrofia metacromatica – la cui mamma posta sul web i video e filmati della piccolina per far vedere che «riesce ad alzare una mano». I genitori delle tante Sofia domenica erano a Sarteano, dove si è riunito il governo Letta, per protestare «contro le case farmaceutiche che si oppongono al decreto Balduzzi e al metodo Stamina». Le case farmaceutiche ci hanno abituato negli anni a ogni tipo di cinismo e calcolo rispetto alla convenienza sulla prosecuzione o meno di una ricerca e di una terapia. Le malattie rare hanno poco «mercato» e di per sé non sono convenienti. Non c’è dubbio che le cure a base di staminali sono la frontiera e chi arriva primo trova il tesoro. E’ questo il caso di Stamina e Medestea? Di sicuro le due società, che certo non hanno uno specifico pedegree scientifico, saranno le uniche a guadagnarci. Il «vecchio» ministero della Salute si difende dicendo che «il governo italiano non ha autorizzato alcuna terapia non provata a base di staminali» e che la prosecuzione di trattamenti con il metodo Stamina è prevista in «via eccezionale e sotto stretto monitoraggio clinico per un periodo massimo di 18 mesi». Il punto è il vulnus che l’Italia sta per aprire nel campo delle regole. Una ferita che crea un precedente in cui sono pronte ad infilarsi pesantemente le multinazionali americane e cinesi della medicina rigenerativa a base di staminali. Oggi alla Camera comincia un veloce giro di audizioni in Commissione Affari sociali. Poi la parola all’aula.