Infusioni a cinque bimbi. Poi si decise lo stop “Nessun miglioramento”

Corriere della Sera
Daniela Natali

Nell’intricata vicenda Stamina c’è anche un capitolo triestino. Che è, anzi, uno dei primi. Al Burlo Garofolo di Trieste, notissimo ospedale pediatrico, che è un Irccs, cioè un Istituto di ricerca e cura a carattere scientifico, ha lavorato dal 1972 fino al primo agosto 2011, il dottor Marino Andolina, che ha avviato l’attività di trapianto di midollo. Al Burlo Garofolo nel 2010 si decide di iniziare, con l’approvazione del Comitato etico, una cura con staminali mesenchimali prodotte dalla Cell factory del San Gerardo di Monza. Nell’agosto del 2011 il dottor Andolina andrà in pensione, ma intanto al Burlo Garofolo succedevano diverse cose. A Trieste arrivavano pazienti da tutt’Italia per curarsi in un ospedale pubblico con le staminali mesenchimali (pubblicizzate nel frattempo da Stamina). Ma i Nas, inviati dal procuratore Raffaele Guariniello, sbarcano a Trieste (come sbarcheranno poi a Brescia) seguendo le fila dell’inchiesta avviata a Torino. Le cure con staminali mesenchimali prodotte da Stamina non saranno mai avviate. I pazienti protestano, alcuni fanno ricorso alla magistratura per poter usufruire del trattamento, che, dopo ingiunzione del Tribunale, viene avviato, ma con le cellule prodotte dalla Cell factory di Monza. Della parte della vicenda che coinvolge più direttamente Andolina, Dino Faraguna, direttore sanitario attuale (ma non lo era all’epoca dei fatti) non vuole parlare «per riservatezza nei confronti di un collega che non opera in questo Irccs dallo 1.8.2011, per cessazione dal servizio, seguita alla sua richiesta — come precisa — di pensionamento per vecchiaia; e in considerazione del fatto che le informazioni sono notoriamente oggetto di una indagine della Procura di Torino». Ma il dottor Faraguna ci tiene a rivendicare il peso che ha avuto, nella successiva decisione di sospendere la terapia con staminali mesenchimali, la valutazione svolta, su iniziativa dello stesso ospedale (che, come puntualizza è «un istituto di ricerca oltre che di cura) sui pazienti — bimbi dai 3 ai 20 mesi — per i quali era stato presentato ricorso al Tribunale. «Un gruppo di esperti — spiega Faraguna — ha analizzato i risultati dei trattamenti sui cinque piccoli pazienti affetti da SMA, atrofia muscolare spinale, e i risultati sono stati diffusi attraverso i canali della comunicazione scientifica». Infatti, su Neuromuscular Disorders del 22 dicembre 2012 è comparsa una research letter in cui si descrivono gli effetti negativi, ovvero inesistenti («il decorso clinico dei pazienti trattati — si legge sulla rivista scientifica — non ha mostrato miglioramenti e non è risultato differente dalla storia naturale dei bambini con SMA») del trattamento sui malati, due dei quali sono deceduti in seguito a complicazioni respiratorie legate al naturale evolversi della patologia. Sempre nella relazione su Neuromuscular Disorders si precisa anche che: «… le cellule sono state somministrate per sei mesi, con una infusione al mese». E che, per quanto riguarda i criteri di valutazione, ci si è affidati a una serie di parametri oggettivi: valutazione clinica generale (peso, funzioni respiratorie, nutrizione); valutazione delle funzioni motorie usando una scala funzionale appositamente studiata per i bambini con SMA; registrazioni video della postura e dei movimenti spontanei; valutazione del liquido cerebrospinale, raccolto prima di ogni iniezione, per analizzare la concentrazione di fattori di crescita e di citochine (potenti mediatori chimici coinvolti nella infiammazione) che si ipotizzava avrebbe potuto essere influenzata dalle cellule stamina-li, come si era già visto in altre patologie neurologiche, cosa che non è avvenuta. «La sospensione del reclutamento di pazienti per questo trattamento è stata presa da un Comitato scientifico istituito ad hoc, che comprendeva esperti di questo Irccs e di altre istituzioni con esperienza specifica nella cura della SMA — puntualizzano al Burlo Garofolo —. Il Comitato ha ritenuto che, in assenza di studi preclinici, non ci fossero le premesse biologiche e cliniche per consentire una sperimentazione sui pazienti, in grado di fornire dati utili a dimostrare l’efficacia del trattamento. Il Comitato ha ritenuto inoltre che il trattamento potesse essere causa di effetti collaterali».