Grandi vie oltre il vaccino.

Il Sole 24 Ore
Gilberto Corbellini

Lo storico e filosofo delle scienze George Canguilhem ha dato la migliore definizione epistemologica della medicina: «Un insieme in evoluzione di scienze applicate». E ha identificato anche quando e come la medicina ha assunto questo statuto, smettendo di essere solo una tecnica: facendo nascere a fine Ottocento dal suo interno nuove scienze di base. Per esempio, l’immunologia. Infatti, da un problema empirico relativo a come ottenere un vaccino in grado di indurre l’immunità contro specifiche malattie infettive emersero nuove scoperte e questioni generali, che fino a lì nessuno sospettava, relative alla natura e alle funzioni dell’interazione tra anticorpi e antigeni. Il fenomeno dello sviluppo di nuove scienze di base dalla medicina si è poi amplificato. Anche cinquant’anni fa si è ripetuto. La pratica di trapiantare organi per curare malattie, che era già matura chirurgicamente da alcuni decenni, non riusciva a decollare a causa del rigetto. Nel 1963 furono effettuati, ma senza successo, il primo trapianto sia di fegato sia di polmone. Quell’anno ci fu anche una fondamentale innovazione. Al Brigham Hospital di Boston confermavano che si poteva controllare il rigetto con una terapia farmacologica immunosoppressiva a base di 6-mercaptopurina. Fino a quel momento sottoporsi a trapianto, a meno di non avere un gemello monozigote disposto a donare un organo doppio come un rene, significava farsi distruggere il sistema immunitario con radiazioni, e magari subire un trapianto di midollo del donatore nel tentativo di indurre una tolleranza immunologica verso il trapianto. Ora, il rischio che il midollo o l’organo reagissero contro l’ospite, immunologicamente depresso, uccidendolo era altissimo. L’uso della 6-mercaptopurina rivoluzionò la medicina dei trapianti, e vent’anni dopo il salto di qualità per l’immunofarmacologia si ripeteva con l’introduzione della ciclosporina. Le basi biologiche del rigetto rimanevano un enigma. Ma nel 1963, il genetista venezuelano Baruj Benacerraf scopriva, in collaborazione con Hugh O. McDevitt, che le risposte immunitarie contro alcuni antigeni sono geneticamente controllate. A seguito di complessi studi per capire come questi geni intervengono nella risposta immunitaria, nell’arco di un decennio si scopriva che codificano per molecole, dette antigeni di istocompatibilità, che sono la “carta d’identità” dell’individuo. Nel senso che definiscono operativamente il cosiddetto self immunitario. Anche se sono stati scoperti e caratterizzati studiando sperimentalmente il rigetto dei trapianti, i geni dell’istocompatibilità non si sono selezionati evolutivamente per impedire i trapianti di tessuti. Servono al sistema immunitario per apprendere la tolleranza verso il self molecolare nelle prime fasi dello sviluppo e per contestualizzare il riconoscimento dell’antigene estraneo (parassiti ma non solo) verso cui attivare la risposta immunitaria. Dal tipo di molecola di istocompatibilità che accompagna il riconoscimento di ciò che non è self (appreso o indotto), dipende la fisiologia specifica e sempre complessa della risposta che viene attivata. All’emergere dell’immunogenetica come ambito di ricerca fondamentale concorse il problema di usare empiricamente gli strumenti della genetica formale e l’analisi della compatibilità interindividuale per render comunque immunologicamente più accettabili i trapianti d’organo. Scoperti nel1958 i primi antigeni di istocompatibilità nell’uomo, durante la prima metà degli anni Sessanta gli studi di genetica formale e un intenso lavoro di ricerca sperimentale basato sulla collaborazione di diversi gruppi internazionali alimentarono una crescita continua e ben coordinata delle conoscenze sul complesso principale di istocompatibilità (MHC, Major Histocompatibility Complex), termine introdotto nel vocabolario immunologico nel 1967, cioè nell’occasione del terzo workshop internazionale sull’istocompatibilità organizzato da Ruggero Ceppellini a Torino. Da quegli studi derivarono le tecniche per la tipizzazione immunogenetica del donatore e del ricevente, in modo da ridurre all’origine i fattori molecolari di diversità riconosciuti dal sistema immunitario come estranei, e quindi il rischio di rigetto. Tanto per consolarci sempre con la storia, visto che l’attualità della scienza italiana non è eccitante, ricordiamo che Ceppellini fu una figura chiave nella nascita dell’immunogenetica come branca specializzata dell’immunologia di base negli anni Sessanta. Il simposio organizzato a Torino segnò una svolta storica nell’interpreta-zione dei dati raccolti usando diverse tecniche per identificare gli antigeni di istocompatibilità e quindi arrivare a ipotizzare la loro organizzazione a livello cromosomico. Ceppellini fu il primo a capire che il sistema di geni che codifica per gli antigeni di istocompatibilità nell’uomo (chiamato HLA o Human Leucocyte Antigens) è una sorta di “supergene”, cioè un gruppo di loci strettamente collegati, che si erano evoluti insieme e funzionano in modo concertato. Inventò anche il termine “aplotipo” per indicare la serie di geni raggruppati insieme su un singolo cromosoma (il sesto nell’uomo), che costituiscono appunto un’unità funzionale. Quando nel 1980 fu assegnato il Nobel per le ricerche sull’istocompatibilità quasi tutta la comunità degli immunologi pensò che Ceppellini avrebbe dovuto esserci. Nel corso degli anni Settanta la ricerca ha messo in luce il ruolo fondamentale delle molecole di istocompatibilità, che quando orchestrano lo spettro delle risposte immunitarie sono le più geneticamente diversificate che si conoscano. La loro conformazione arriva fino a influenzare l’eziologia di molte malattie (in particolare quelle con una componente autoimmune), nonché le scelte sessuali attraverso le preferenze odorifere delle donne. Le quali di regola preferirebbero accoppiarsi e quindi far figli con maschi che abbiamo un genetico profilo di istocompatibilità il più possibile diverso dal proprio. È banale capire perché. Insomma, dietro a un problema apparentemente molto pratico, come quello di far attecchire meglio un trapianto, c’è una storia e un universo biologico ricco di sfide concettuali con significati sia evolutivi sia fisiologici, che possono essere oggetto di stimolanti percorsi di apprendimento.