Come si cura oggi con i farmaci. Efficacia e limiti.

Corriere della Sera

Fino alla metà degli anni Novanta per la sclerosi multipla non c’era cura, solo cortisone (per altro ancora usato contro i sintomi) per ridurre l’infiammazione in fase acuta, poi nel ’93 si è iniziato a usare l’interferone beta, un immunoregolatore che ha il vantaggio di allontanare nel tempo, e di ridurre, il rischio di attacchi che comportano sintomi estremamente variabili da persona a persona (diminuzione della forza, formicolii, calo della vista, vertigini, disturbi dell’equilibrio e della coordinazione, paralisi facciale) e vanno a compromettere, in maniera cumulativa, il sistema nervoso centrale. All’interferone si è poi affiancato qualche anno dopo il Glatiramer acetato, un altro immunomodulatore. E a fine 2006 e nel 2011 sono arrivati altri due farmaci in grado di agire laddove i primi due non funzionano: il Natalizumab e il Fingolimod. La sclerosi multipla che riguarda un numero limitato di pazienti (circa 63 mila in Italia) sembra aver attirato negli anni molti degli sforzi dell’industria farmaceutica, specie se si tiene conto che tra oggi e il 2018 è attesa la commercializzazione di una decina di nuovi farmaci attualmente in fasi diverse di studio. Ragioni di tanto interesse? Probabilmente anche il fatto che la sclerosi multipla possa fungere da modello per la cura di altre patologie autoimmuni, ma soprattutto perché si tratta di una malattia che colpisce persone giovani e le cure durano per molti anni. Comunque, nonostante tanti sforzi e tante ricerche nessuna delle terapie farmacologiche per ora è quella «ideale». Quando si ha un alto profilo di sicurezza (e cioè non si corrono rischi gravi, né se ne temono di ignoti perché il farmaco è gia da vent’anni e più in uso) è bassa la tollerabilità: la terapia ha effetti collaterali, da fastidiosi a pesanti, che non sempre è possibile tenere sotto controllo con altri medicinali.  Oppure, ed è il caso dei nuovi prodotti, gli effetti collaterali sono pochi o assenti, ma non sono mancati gli eventi avversi che hanno indotto a escludere dai candidati all’uso diverse categorie di pazienti. E la fase di farmacovigilanza, che per forza di cose, inizia solo quando i medicinali sono in vendita, e vengono testati su larghi numeri, è appena iniziata. Senza contare che esiste anche il problema costi delle cure. Se per i «vecchi» interferone beta si può andare dai 1.200 ai 1.600 euro circa al mese e così pure per il Glatiramer acetato, con i farmaci di nuova generazione (per i quali l’industria deve ovviamente rifarsi delle spese per la ricerca) i costi salgono e si va da 2.000 fino a 3.000 euro al mese. «In alcune regioni — quando non si sono avute discrepanze anche tra Asl e ospedali di una stessa regione — si sono registrati ritardi nell’accogliere in Prontuario i nuovi prodotti, costringendo i pazienti — come racconta Carlo Pozzilli, responsabile del Centro sclerosi multipla dell’Università La Sapienza di Roma — a cambiare perfino residenza». «Anche se va precisato che i malati attualmente in cura sono circa 40 mila e tra questi quelli che usano i nuovi medicinali solo 5 mila. E visto che la spesa farmaceutica complessiva è pari solo al 13-14% della spesa sanitaria complessiva — polemizza Pozzilli — il nostro SSN avrebbe ben altre occasioni per risparmiare. Senza contare che le cure prevengono disabilità ben più costose per la comunità». Ma come mai i farmaci più cari vengono dati a pochi malati? Questione, appunto, di risparmio? «I medicinali a disposizione vengono definiti di prima o di seconda linea — spiega Giancarlo Comi, presidente della Società italiana di neurologia —. Come è intuitivo, si passa alla seconda, che comprende i prodotti più innovativi, solo quando la prima ha fallito o in casi in cui la malattia si presenta fin da subito come particolarmente aggressiva. Ma si tratta di una distinzione fatta dall’Agenzia europea del farmaco che, per esempio, negli Usa, dove non c’è un sistema di assistenza pubblica e ognuno decide — e paga — per sé, non esiste». Va anche precisato, e nessuno dei neurologi intervistati ha dimenticato di dirlo, che i nuovi farmaci, accanto alle loro indubbie doti, hanno dimostrato di porre problemi non da poco. Partiamo dal Natalizumab: come tutti farmaci vecchi e nuovi per la sclerosi multipla combatte l’infiammazione, ma ha un meccanismo d’azione innovativo che lo «rende efficace nel bloccare la malattia in oltre il 70% dei casi contro il 35-40% circa di successo ottenuto con i prodotti tradizionali — sottolinea Pozzilli — ed è anche semplice da usare: basta una flebo al mese». «ll Natalizumab agisce contro i linfociti “cattivi”, “aizzati” da un sistema immunitario fuori controllo, indirizzati a distruggere la guaina mielinica, deputata a proteggere gli assoni (le fibre nervose) lungo i quali viaggiano gli “ordini” che partono dal cervello e raggiungono il midollo spinale. Insomma, questo farmaco agisce a monte, prima che si crei un danno, e probabilmente proprio per questo è tanto efficace — precisa Corni —. Il Natalizumab non distrugge i linfociti aggressivi, ma in pratica impedisce loro di entrare nel tessuto nervoso. Questo ha però una conseguenza sgradita: se il farmaco viene sospeso, i linfociti che si sono accumulati e “incattiviti” si scatenano e si ha un effetto “rimbalzo”: la malattia per almeno 6-8 mesi si ripresenta molto più aggressiva, poi tutto ritorna all’equilibrio preesistente alla cura con il Natalizumab». Ma perché sospendere un farmaco tanto efficace? «ll Natalizumab non agisce soltanto contro i linfociti cattivi ma anche contro quelli “buoni” che ci difendono dalle infezioni. Oltre il 50% di noi ha nel proprio organismo un virus, il virus JC, che normalmente non causa guai, ma se gli anticorpi che ci difendono sono messi a tacere, il virus si risveglia e c’è il rischio che entri nel cervello causando la ieucoencefalopatia muitifocale progressiva (PML, Progressive multi-focal leukoencephalopathy) dagli esiti anche fatali» riprende Pozzilli. «Il rimedio però c’è: — chiarisce Gianluigi Man cardi, direttore del Dipartimento di neuroscienze dell’Università di Genova — andare a verificare con un test, prima di iniziare la terapia, se si è portatori del virus JC, tenendo comunque presente che prima che si attivi ci vogliono almeno due anni di cura con il Natalizumab. E comunque, anche dopo i fatidici due anni, si deve valutare caso per caso quali sono i possibili rischi e i possibili benefici di un uso prolungato e decidere se il livello di rischio è accettabile». E il Fingolimod che caratteristiche ha? «È il primo farmaco per uso orale — spiega Comi —. Agisce su dei recettori espressi sulla superfice dei linfociti. Questi recettori servono ai linfociti come una chiave da inserire nella toppa per uscire dai linfonodi quando, nel loro migrare, si trovano a passare da queste stazioni del sistema immunitario. I linfociti in questo modo rimangono consegnati nelle loro “caserme” e non possono aggredire la mielina delle fibre nervose. Il farmaco blocca l’attività della malattia in circa la metà dei pazienti». Ma, anche qui c’è un «ma». I recettori espressi dai linfonodi sono presenti anche su molte altre cellule, comprese quelle che regolano la frequenza cardiaca e l’utilizzo di Fingolimod può causare un transitorio rallentamento del battito cardiaco e un aumento della pressione arteriosa. «Ecco perché ora la prima dose di questo farmaco si assume sotto monitoraggio cardiaco, monitoraggio che dura sei ore in modo da capire chiaramente come reagisce il paziente» aggiunge Corni. Il Fingolimod, tuttavia, proprio perché è così potente, riduce tutti i linfociti in circolo e abbassa le difese immunitarie, tanto da aver reso mortale unlbanalissimo caso di varicella. Un rischio apparentemente semplice da evitare: basta verificare se la persona ir cura ha già anticorpi contro il virus’ della varicella, il che dimostra che e già stata attaccata dalla malattie e non può reinfettarsi. Ma se oltre a quello della varicella ci fossero altri virus potenzialmente pericolosi quando si è in terapia? «Per adesso — risponde Giancarlo Corni — non ci sono evidenze di altre complicazioni infettive». Un ulteriore limite delle terapie attuali è la loro scarsa utilità quando la malattia è avanzata, è entrata nella cosidetta fase progressiva. «Per trovare una soluzione anche per questa fase di malattia, quella che causa più disagi, è appena partita un’iniziativa internazionale promossa dalle associazioni dei malati, tra le quali la Fondazione italiana sclerosi multipla, che prevede un investimento di circa 30 milioni di euro» puntualizza Corni. «Non bisogna poi dimenticare — aggiunge Mancardi — il ruolo della riabilitazione, che non è più solo quella di una volta, essenzialmente “passiva”: anche in questo settore si sono fatti molti progressi. E per i muscoli contratti si può ricorrere alla tossina botulinica». Qui si parla della progressione della malattia, e se ad ammalarsi sono bambini? «Solo il 4% di sclerosi multipla insorge prima dei 16 anni e la percentuale scende allo 0,4 prima dei dieci anni di età. Nei più giovani la malattia è particolarmente aggressiva perché la risposta infiammatoria è molto forte, e questo rende qualche volta necessario ricorrere a farmaci come il Natalizumab. D’altra parte i bambini hanno una capacità di recupero del tessuto cerebrale, come d’altronde di tutti i tessuti, eccezionale. Insomma, la mielina si riforma meglio» risponde Pozzilli. Altro problema: l’aderenza alle terapie. Anche e soprattutto perché le terapie danno problemi. C’è chi riferisce perfino di convulsioni, vertigini, vista annebbiata, confusione mentale, e in generale di un malessere e di una stanchezza tali da essere talvolta più penosi degli stessi attacchi della malattia. «L’interferone dà problemi — conferma Pozzilli — e i più comuni sono: stanchezza persistente, mal di testa, febbre, stipsi E il Glatiramer acetato può causare ponfi nel luogo dell’iniezione e dar luogo ad allergie». «Si può certo ricorrere ad antinfiammatori per contrastare la febbre, il dolore muscolare e l’astenia, ma un 10-15% di malati continua ad avere questi sintomi» aggiunge Maria Trojano, attuale presidente di Ectrims, l’European Committee for Treatment and Research in Multiple Sclerosis. «L’aderenza alla terapia, certamente influenzata anche dalla presenza di sintomi collaterali, è un problema in tutte la malattie croniche — continua Trojano — e questa non fa certo eccezione. Solo il 30-40% dei pazienti segue fedelmente le prescrizioni: non interrompe la cura e non si auto- riduce la dose. E l’aderenza alle cure è scarsa proprio nei primi due anni della malattia, quando i risultati delle terapia possono essere migliori». Cure a vita o cure a lungo? Se si sta bene perché continuare con i farmaci? «Anche nei momenti di remissione, i farmaci vanno assunti, perché allontanano nel tempo le ricadute, ne possono ridurre la violenza e servono a scongiurare o a procrastinare lo stadio di sclerosi progressiva» afferma Comi. «”Mai” e “a vita” sono termini scoraggianti. Le cure si possono sospendere anche per un paio di anni, se una donna desidera un figlio. E poi chissà che in futuro non si trovi una soluzione definitiva, qualcosa che sradichi la malattia invece di tenerla a bada. È il sogno di tutti malati. Ecco perché suscitano tante speranze la Ccsvi e le terapie con le staminali. Anche se lo stesso Zamboni non ha mai detto che dopo l’intervento si possono interrompere le cure farmacologiche, nella testa della gente c’è sempre l’idea che la chirurgia “estirpi” il male alla radice. E se anche non e vero, le staminali fanno sperare a chi è già in carrozzella di tornare a camminare» dice Pozzilli. «Vorrei poi ricordare che questa malattia, forse come tutte, è pesantemente influenzata dal benessere psicologico. E non lo provano solo i mille episodi che ognuno di noi neurologi potrebbe raccontare: gente che sta bene, non ha ricadute per dieci anni e più, e poi dopo un divorzio o la scoperta di un tumore torna a stare male. Lo provano i dati scientifici. In uno studio americano, per esempio, si è visto che l’uso di un antidepressivo riduce un elemento “misurabile” come l’infiammazione cerebrale del 40%. In un altra ricerca si visto che la psicoterapia aiutava a mantenere uno stato di stabilità della malattia in circa il 70% dei pazienti che la praticavano, contro il 43% osservato nel gruppo di controllo. Un motivo in più per essere cauti quando si parla con i pazienti e per non distruggere mai le speranze».