Grazie al Prof. Giulio Cossu, Filomena Gallo ed alla Associazione Coscioni per avermi invitato oggi, permettendo a Parent Project, l’associazione che rappresento, di testimoniare la sua vicinanza ai temi che da sempre caratterizzano le attività dell’associazione Luca Coscioni.

 

Parent Project è un’associazione di genitori con figli affetti da distrofia muscolare di Duchenne e Becker, patologie genetiche che provocano una progressiva degenerazione dei muscoli che si manifesta dalla primissima infanzia nei bambini maschi.

Le distrofie di Duchenne e Becker, sono patologie che coinvolgono l’intero nucleo familiare, come è facile immaginare, e come molte patologie analoghe in cui le famiglie sopportano il peso quasi esclusivo dell’assistenza.

  • “Dal corpo dei malati al cuore della politica”, una politica troppo spesso senza cuore che finisce per abusare del corpo dei malati.

  • Ricerca, Eutanasia, Salute e Disabilità,

quattro temi che possiamo riassumere in tre parole:

  • Libertà di scelta

o per essere ancora più brevi ed incisivi possiamo usare una sola parola:

  • autodeterminazione.

 

La strada per la libertà di scelta è un percorso molto lungo e articolato, che coinvolge tutti i settori della società, a più livelli, e non chiama in causa solo la politica.

 

Se partiamo dalla fecondazione assistita, è sicuramente “alla politica” che ci rivolgiamo.

 

La legge 40 ha molti acciacchi e limita fortemente la libertà di scegliere degli individui, è un guazzabuglio.

 

Tra le diverse “patologie” di questa legge, ci colpisce il diverso trattamento riservato alle

  • coppie che cercano di avere un figlio senza successo (le coppie infertili) e alle

  • coppie che vorrebbero avere un figlio sano ma che sono portatrici di una malattia genetica.

 

In Italia, solo le coppie infertili e quelle portatrici di una malattia sessualmente trasmissibile (come l’Hiv o l’epatite B e C) possono accedere alla Procreazione Medicalmente Assistita e alla diagnosi pre-impianto.

Questa è una vera assurdità, che esclude le coppie portatrici di una malattia genetica (come la Duchenne, la fibrosi cistica, la talassemia, l’emofilia…) che certamente hanno ugualmente un estremo bisogno di poter ricorrere (se lo desiderano!!! la famosa libera scelta…) alla diagnosi pre-impianto.

 

Ancora più assurdo è il modo in cui i centri di Procreazione Medicalmente Assistita cercano di aggirare questi paletti posti dalla legge 40,

lo stile è quello che conosciamo da tempo…e che vale un po’ per tutto qui in Italia… alla coppia portatrice di una malattia genetica viene suggerito di “far finta di essere una coppia infertile” in modo che possa avere accesso alla diagnosi pre-impianto.

 

Senza entrare troppo nel merito, qui è certamente “la politica”, che viene chiamata in causa.

 

Una legge fatta in questo modo non è stata pensata per il “corpo del malato”, ma solo per quanto sta “a cuore” ai politici: la ricerca del consenso, gli equilibri dei poteri.

Ed è quindi alla politica che dobbiamo chiedere conto.

 

Il corpo del malato” deve essere sempre al centro di ogni decisione, e questo perché un “malato” è un individuo, la cui identità non è la sua malattia,

e dunque è l’individuo, nella sua interezza, come parte attiva dei processi di cambiamento, che bisogna sempre aver presente.

 

Giulio Cossu sa che Parent Project è da anni a fianco dei ricercatori e dei clinici e sa quanto impegno mettiamo nel tutelare il diritto all’autodeterminazione e alla libera scelta.

Oggi in Europa e nel mondo c’è una forte volontà di accogliere le associazioni dei pazienti nei tavoli in cui si decide sulla ricerca, sulla clinica e sullo sviluppo dei farmaci, ma “l’accoglienza” non è ancora quello di cui abbiamo bisogno, noi non vogliamo essere “accolti”, vogliamo essere “pari”.

 

Questo è un momento cruciale per la Duchenne: negli ultimi anni il panorama è radicalmente mutato e sono in corso numerose sperimentazioni sull’uomo.

Noi ci auguriamo che questo ci porti il prima possibile a trovare una cura per i nostri figli.

Ma, nel frattempo, è necessario che tutti siano consapevoli che la ricerca e le politiche sanitarie non si possono fare senza i pazienti.

 

E’ necessario che i governi e le istituzioni comprendano che la sperimentazione comporta dei costi enormi, e non solo economici, ma in termini di sofferenza dei pazienti, di speranze abusate e delusioni, ed è con i pazienti che i governi e le istituzioni devono imparare a lavorare, perché solo i pazienti possono tutelare il valore etico delle sperimentazioni e contribuire a ridurre gli sprechi, in termini di risorse, umane ed economiche.

 

E’ necessario che i ricercatori e i clinici che progettano e poi coordinano le sperimentazioni, non calpestino il delicato rapporto di fiducia che hanno con i loro pazienti, riconoscendo loro la parità che meritano a livello decisionale, se la fiducia viene meno si arriverà inevitabilmente ad una frattura insanabile.

 

Sono anni che Parent Project si occupa del cosiddetto “malinteso terapeutico”, ossia il fraintendimento dello scopo primario di un trial clinico, che non è e non può essere quello terapeutico.

La missione del medico, così chiara in un rapporto quotidiano di assistenza, in occasione di una sperimentazione clinica perde i suoi contorni definiti, il medico che conduce una sperimentazione non può essere preoccupato della salute di un singolo paziente ma deve guardare al bene ultimo di una popolazione più ampia.

Quindi chi partecipa a una sperimentazione, come paziente, deve essere consapevole che non riceverà un trattamento terapeutico, deve sapere che il medico, in quel momento, non può fornirgli alcuna assicurazione di ottenere benefici personali, a volte neanche sull’assenza di rischi.

 

Nel 2005, una ricerca sui Moduli di consenso informato (King, N. et al. 2005) ha evidenziato che nella maggior parte dei moduli di consenso utilizzati dai principali centri di ricerca erano molto frequenti dichiarazioni senza alcun contenuto, come ad esempio:

  • “potrai o meno avere un beneficio”.

oppure:

  • “la speranza è che con questo trattamento si possa riuscire a migliorare i tuoi sintomi e a prolungare la tua aspettativa di vita”.

Venivano confusi o utilizzati, senza alcuna differenza, termini come “ricerca” e “trattamento”.

 

Per questo, come associazione siamo impegnati in un lavoro intenso di revisione dei consensi informati che vengono utilizzati durante le sperimentazioni cliniche.

 

La fiducia è cruciale per il corretto sviluppo ed il costante successo della ricerca.

Abusare della fiducia dei pazienti pone sulle spalle dei ricercatori un carico di responsabilità enorme, può avere un effetto negativo sui pazienti stessi, con un effetto domino che distrugge anche le altre relazioni di fiducia nei professionisti sanitari, può portare alla perdita di legittimazione sociale che consente ai ricercatori di portare avanti il proprio lavoro.

 

Il consenso informato, che oggi ha un ruolo quasi esclusivamente difensivo, deve essere ripensato, deve diventare uno strumento che permetta di evitare il malinteso terapeutico, e questo può essere fatto solo lavorando a fianco, alla pari, con i pazienti e le loro associazioni.

Promuovere l’informazione dei pazienti facilita la loro partecipazione e li riporta al loro ruolo assoluto nelle scelte fondamentali che riguardano “il corpo dei malati”.

 

Anche questa dunque è autodeterminazione.

 

Ma come si può promuovere l’autodeterminazione in un’associazione di pazienti in cui le problematiche motorie compromettono così profondamente lo sviluppo dell’autonomia?

Quando tutti gli altri ragazzi cominciano ad avere le competenze e la voglia di diventare individui unici e in grado di costruire la loro vita con le proprie forze, i nostri ragazzi diventano ogni giorno più dipendenti dalle cure dei propri familiari, amici o assistenti.

I nostri ragazzi perdono la loro autonomia quando comincia a svilupparsi in tutti gli altri la voglia di vivere in una casa che non sia quella della famiglia d’origine, quello che tutti i genitori temono ma certamente si augurano per i propri figli.

Questo obiettivo non è e non può essere solo un progetto personale, o la missione di una associazione.

Questo risultato è il frutto di un lungo processo di elaborazione, di crescita culturale.

Un progetto che purtroppo nel nostro Paese deve essere ancora disegnato.

 

Vita indipendente e autonomia non è solo ottenere una casa e un assistente personale.

Vita autonoma significa la certezza del diritto di poter fare le proprie scelte, il diritto di costruirsi un futuro, secondo le proprie aspirazioni e le proprie capacità.

In caso contrario, restiamo impigliati nella logica dell’assistenzialismo.

Se nel nostro paese proviamo a discutere le politiche di welfare legate alla disabilità, gli unici discorsi che sentiamo si limitano solo a questioni banali di “tagli o risorse”.

Se la logica è quella dell’assistenza, le politiche per la disabilità sono solo un costo, e come tale va contenuto, soprattutto in tempi di crisi.

 

Se ci fosse posto “per noi” ai tavoli nei quali si parla “di noi”, forse potremmo far comprendere a tutti che limitare il pieno inserimento nella società di un individuo è il vero spreco di risorse.

Che la tutela della vita Indipendente non coinvolge solo le persone con disabilità, ma tutti coloro che compongono la rete di relazioni che intorno ad essa ruota ogni giorno: madri, padri, fratelli, figli, compagni, amici, parenti.

Ogni spazio di autonomia promosso, libera altra autonomia, altre risorse e promuove un sano processo di crescita culturale.

 

Per questo, se è vero che dobbiamo pretendere politiche adeguate, risorse e leggi che garantiscano assistenza, accesso al lavoro e un sistema complessivo di welfare che tuteli anche i cosiddetti “soggetti deboli”, siamo comunque noi che dobbiamo interrogarci su quanto siamo in grado di contribuire a creare una cultura che sia realmente inclusiva.

 

In caso contrario, qualunque legge, regolamento, iniziativa, avrà sempre un approccio parziale alla questione.

Ad esempio, per tutte le donne e per tutti gli uomini, l’accesso al lavoro è condizione indispensabile per condurre una vita indipendente. La Legge 68, attraverso il collocamento mirato, dovrebbe facilitare l’accesso al lavoro delle persone con disabilità.

Uno dei nostri ragazzi è stato assunto alla regione Lazio tramite un concorso ma, per poter lavorare, deve pagarsi un assistente. Il suo stipendio viene quindi utilizzato per pagare la persona che lo assiste durante la sua permanenza in ufficio.

Come vedete, la legge gli ha garantito l’accesso al lavoro, non ha certamente promosso la sua autonomia e non tiene in minimo conto il valore delle sue capacità come individuo.

 

Se permettiamo che vengano ridotte in cenere le aspirazioni dei nostri giovani,

Se permettiamo che venga calpestato il rapporto di fiducia che è alla base della relazione tra medico e paziente,

Se permettiamo che venga impedito a chi è portatore di una malattia genetica di avere un figlio sano, o siamo noi ad averlo deciso e ne siamo responsabili, oppure è arrivato il momento di fare qualcosa.