Qui la scienza biotech innova e diventa impresa

il Sole 24 Ore
Paolo Bricco

Dalla Toscana, passa un pezzo del futuro industriale italiano. II suo successo o il suo fallimento. La diagnostica, il farmaceutico e le biotecnologie sono settori strategici che hanno lo stesso mercato finale: la salute delle persone. II passaggio è delicatissimo. La domanda pubblica, soprattutto in Italia, è in flessione. E, in tutte le così dette scienze della vita, bisognerà verificare se i ricercatori italiani avranno la capacità di trasformarsi in imprenditori e manager. Finora non ci sono riusciti». Fabrizio Landi è amministratore delegato della Esaote, la società specializzata in macchine per ospedali che, in Italia, ha due stabilimenti: a Genova e, appunto, a Firenze. Landi appartiene alla scuola manageriale formatasi durante la violenta ristrutturazione e la tumultuosa privatizzazione dell’Iri, che oltre a dismettere molti ferri vecchi del capitalismo di Stato ha anche generato alcuni spin-off che prima sono sopravvissuti e, poi, si sono evoluti in multinazionali tascabili, talvolta con la forma societaria di public company quotate. Insieme a Carlo Castellano, che ne è presidente, ha fatto di Esaote un gruppo che, nel 2011, ha avuto 328 milioni di euro di ricavi e 1350 addetti (solo 80 gli operai, con un investimento in ricerca e sviluppo pari all’8% del fatturato). Esaote è uno degli ingranaggi più robusti di un corpo industriale articolato, ma dotato di una sua coerenza interna. Lorenzo Zanni, docente di marketing e di management internazionale all’università di Siena, ha analizzato la composizione di 317 imprese del life sciences toscano: il 36,59% opera nei medical devices, i114,83% nel chimico-farmaceutico, l’u,36% nelle biotecnologie, 1’8,83% nella cosmetica, il 3,79% nei prodotti di supporto (trasversali all’intero settore) e il 24,6% nei servizi. Zanni ha anche studiato gli ultimi bilanci disponibili 11 fatturato aggregato supera i 7,7 miliardi di euro. Gli addetti impegnati sono poco meno di 2omila. Il fatturato medio per impresa oltrepassa i 400mila euro. «Si tratta di una struttura produttiva che miscela i classici andamenti da industria matura con le dinamiche da cluster di nuova generazione – riflette Zanni – tanto che una azienda su tre ha più di vent’anni di vita, ma una su sei ne ha meno di cinque. La sfida del piano strategico del distretto è quella di potenziare le sinergie industriali e di ricerca tra imprese e università toscane che su questo progetto stanno lavorando insieme per raggiungere una maggiore massa critica». Questo tessuto industriale è ben inserito, perora,nelle nicchie dei mercati globali. Ma, per il futuro, ha un problema di struttura finanziaria. Lasciamo stare le specifiche vicissitudini legali e fiscali della Mena-rini, che negli ultimi mesi ha “restituito” alla agenzia delle Entrate poco meno 372 milioni, mentre è ancora aperto un procedimento penale. Trascuriamo le ricadute economiche di quanto successo nella sede di Siena della Novartis, dove la multinazionale ha concepito il vaccino anti-influenzale che ha dovuto ritirare per alcune settimane, con un danno economico rilevante, su ordine del ministero della Salute e dell’Agenzia italiana del farmaco. Il vero nodo strutturale è costituito dai soldi pubblici, drammaticamente in calo in un Paese come l’Italia che, se non taglia la spesa regionale, rischia la sindrome greca. Lo stesso per i soldi “privati”, con la Fondazione Mps, protagonista della ingloriosa (e costosa) stagione della società Siena Biotech e soprattutto, dopo il semi-fallimento del Monte dei Paschi, con una dotazione fmanziaria ridotta praticamente a zero da mettere nelle attività alternative al credito. Il primo problema, però, è pubblico. Il budget 2011-2013 della Regione Toscana, per il sostegno alla Ricerca & Sviluppo, è di 500 milioni di euro (all’incirca il 20% da fondi regionali, il 40% da fondi nazionali Fas e il 40% da fondi strutturali comunitari). Questi soldi finiscono per i 170% alle imprese e per i130% ai centri di ricerca e alle università. Su 500 milioni, 170 milioni vanno alle scienze della vita. «Da qui in avanti – avverte Marco Masi, direttore dell’area ricerca della Regione Toscana – si entra in una terra incognita». La spesa pubblica nazionale e locale, infatti, deve contrarsi.I fondi Ue sono in via di rimodulazione.Il risultato è che, in Toscana, potranno dirsi molto soddisfatti se, fra il 2014 e il 2016, alle scienze della vita andranno 130 milioni di euro. Quaranta milioni in meno. Se, invece, i fondi Fas venissero all’improvviso orientati sulle infrastrutture fisiche, i soldi crollerebbero a una settantina di milioni di euro. Cento milioni in meno. «Non è più sta-gione di incentivi a pioggia», sottolinea peraltro il ministro dell’Ambiente Corrado Clini. «È vero – conferma l’amministratore delegato di Esaote, Fabrizio Landi – una volta i soldi arrivavano a tutti, senza un criterio». Ora, però, sono finiti. E, dunque, le cose cambiano. «Con il Distretto del LifeSciences, stiamo provando a creare una struttura tecnica perle politiche regionali», dice Landi, membro del comitato di Distretto. In ogni caso, al di là delle regolazioni di mercato, la situazione è in sé e per sé molto complicata.Anche perché il contesto generale in cui operano le scienze della vita, cioè la sanità, ha un perimetro fmanziario e di spesa che, pena il fallimento del Paese, non potrà che ridursi nei prossimi anni. A questo punto, in uno scenario generale tanto complesso, diventa evidente che contano soprattutto le dinamiche propulsive endogene delle imprese. Italiane e toscane. La loro (storica) capacità di reggere l’urto delle crisi. La loro (atavica) abilità di tagliare i costi. La forza visionaria (se ce l’hanno). «Di certo-riflette Alessandro Profumo, presidente del Monte dei Paschi – le imprese ad alto contenuto tecnologico, i centri di ricerca, le università e gli spin-off attivati negli ultimi anni stanno affermando un modello che trascende il concetto di tradizione industriale, accentuando il focus su ricerca, innovazione e sistemi di rete. E che appare in controtendenza rispetto ai comparti classici della manifattura». Non è solo una questione di modello di sviluppo locale. È anche un problema di natura dell’attività economica. «L’innovazione tecnologica mirata a migliorare la qualità della vita – riflette il ministro Clini – come la qualità della salute delle persone, è la ricetta migliorare per contrastare la crisi economica». Dunque, al netto delle debolezze intrinseche e della decomposizione del quadro italiano, il mega cluster toscano delle scienze della vita appare coerente con uno dei principali driver della crescita economica contemporanea, valido sia in Europa sia nei mercati emergenti. «In particolare – osserva Mario Federi-ghi, titolare della Farmigea di Pisa-, a parte alcuni bigplayer italiani e stranieri presenti in Toscana, esiste una specificità delle nostre piccole e medie imprese: siamo capaci di sviluppare e di vendere buona innovazione, in un rapporto di collaborazione con le multinazionali». Federighi è un imprenditore di terza generazione. L’azienda è stata fondata nel 1946 dal nonno Antonio, allevatore e contadino. Farmigea, che ha il suo core business nell’oftalmologia e nell’otorinolaringoiatria, ha 250 addetti e un fatturato di una quarantina di milioni di euro, i130% da export. «Abbiamo trovato una molecola attiva nella cura del glaucoma – dice Federighi – adesso stiamo cercando un partner industriale che la sviluppi». Come in molti altri settori, anche per le scienze della vita il rompicapo della sostenibilità del modello italiano trova una soluzione (almeno temporanea) nella trasformazione della piccola e della media dimensione in un vantaggio competitivo. «Una sorta di artigianato high-tech e una vocazione ai servizi – nota Andrea Paolini, direttore della Fondazione Toscana Life Sciences – che permette al sistema italiano di non essere eliminato dagli oligopoli e dalle strutture compartimentate dei mercati internazionali. Una caratterizzazione che, al contrario, sfrutta proprio le nicchie e risponde alle necessità di servizio dei colossi». Pazienza se così non si riesce a sfruttare la tendenza strutturale delle life sciencesglobali, un comparto in cui le imprese di successo fanno margini paurosi. In ogni caso, almeno per ora, la debolezza non è vera debolezza ma, per un paradosso economico, si trasforma in forza. La solita eccezione italiana. Con una bassissima probabilità però di vedere una società diventare una multinazionale. Ma una elevata possibilità che le nostre imprese si infilino (con profitto) nei “pertugi” delle piattaforme e delle catene del capitalismo manifatturiero internazionale o che, in alternativa, sviluppino attività di terziario industriale. Come fa da 35 anni la Diesse Diagonistica Senese (120 addetti e una ventina di milioni di fatturato nello sviluppo di sistemi per la diagnosi clinica), fondata a Monterig gioni da Francesco Cocola, tecnico formatosi alla Montedison e affermatosi all’Istituto Sciavo di Siena, dove Albert Sabin produsse il primo vaccino anti-polio. Prova a farlo Toscana Biomarkers (test per le malattie autoimmuni), uno spin-offdi cinque professori universitari di Pisa e di Firenze ora guidato da Antonio Sanò, anch’egli ex dirigente della Sciavo. Da una decina di anni ci riesce la Pharma D&S dell’ex tecnico di Menarini Riccardo Ballerini (sede a Scandicci, 40 addetti e 2 milioni di ricavi) che, in un mercato ultra-regolamentato, offre servizi ai giganti di Big Pharma. A questo punto in una struttura produttiva che, a parte le aziende storiche, ha una dimensione piccola o media, la stabilizzazione del tessuto industriale diventa essenziale. E proprio questo è il punto. La necessità, in un comparto in cui l’innovazione nasce strutturalmente all’incrocio fra l’università e l’impresa, di riuscire a trasformare gli accademici in imprenditori. Una metamorfosi compiuta negli Stati Uniti e in Inghilterra.Realiz-zata in parte in Germania e in Francia. Un grande fallimento, fmora, in Italia. «Senza entrare nel merito dell’impostazione regolamentare antimercato delle università – nota Andrea Frosini, delegato all’incubatore di Firenze della Fondazione Toscana Life Sciences- basta osservare la mentalità del professore universitario medio che, da noi, conduce una ricerca, fa un brevetto e, solo quel punto, chiede se interessa a qualcuno. Negli Usa accade il contrario: gli accademici si mettono in scia alle imprese e orientano gli sforzi su progetti che hanno una elevata probabilità di industrializzazione». Serve un cambio di passo. Culturale e antropologico. «Non bisogna peccare in esterofilia- conclude Landi – ma, perché questa industria liberi tutte le sue energie, occorre che l’artigianato high-tech evolva nell’impresa innovativa e che l’accademico smetta di considerare residuale l’attività di impresa».