Se il Paese mette la scienza all’angolo

Messaggero
Garattini Silvio

In questo periodo c’è stata molta attenzione nel discutere la messa in moto da parte del ministero dell’Istruzione di un’agenzia, l’Anvur, destinata a valutare i risultati scientifici dei vari gruppi di ricerca italiani. Nessun dubbio sulla importanza di questa attività, come d’altra parte il Gruppo 2003 (il gruppo dei ricercatori più citati nella letteratura mondiale) ha indicato nel suo Manifesto costitutivo e ribadito in più occasioni. È giusto ritornare a premiare il merito, ma questo merito va valutato considerando che in Italia, a differenza di altri Paesi, esistono condizioni impari di competizione e povertà delle risorse disponibili. Il merito dipende certamente dalle capacità intellettuali e organizzative dei singoli ricercatori, ma anche e soprattutto dal contesto istituzionale all’interno del quale essi operano. Infatti il prodotto della ricerca è quasi sempre frutto dell’attività di gruppo e dei finanziamenti disponibili che sono spesso condizionati da fattori di distorsione. C’è chi è stato favorito dall’ammiccamento ai partiti, chi si è fatto fare leggi ad hoc, chi può partecipare ai bandi di concorso e chi ne è stato escluso, c’è chi ha fatto fortuna legandosi al mondo dell’industria, chi ha fatto debiti che vengono poi pagati da fondi pubblici, chi è stato favorito da finanziamenti diretti e chi usufruisce del vantaggio di appartenere a gruppi di potere. E vero che alla fine conta il merito, ma non si può prescindere da un’analisi di come questo sia stato raggiunto. Inoltre la giusta attenzione alla valutazione dovrebbe essere accompagnata dalla disponibilità di adeguate risorse e non dai tagli. Succede invece esattamente l’opposto: è come andare a valutare come spende i soldi chi si trova in miseria. Val sempre la pena di ricordare che questo governo, chiamato a fronteggiare un’emergenza finanziaria gravissima, nel limitato tempo della sua operatività non è riuscito, come del resto i precedenti, a dedicare alla ricerca l’attenzione che questa avrebbe meritato. La nostra spesa per la ricerca è continuamente diminuita ed è attualmente ben al di sotto della metà della media europea; il numero dei ricercatori è in continua diminuzione anche per una consistente emigrazione con scarsi ritorni e non deve perciò meravigliare il fatto che recuperiamo dalla competizione europea la metà dei contributi che sborsiamo. La situazione è disastrosa. Nel campo biomedico tutte le multinazionali del farmaco hanno chiuso i loro laboratori e le industrie italiane, con poche eccezioni, hanno abbandonato da tempo la ricerca. Manca nel nostro Paese praticamente l’industria dei diagnostici, delle apparecchiature scientifiche, dei dispositivi medici. L’Italia è diventata un grande e appetibile mercato, dove tutti attingono senza investire in ricerca, proprio perché mancano le condizioni minime per farlo. Come pensa di riprendersi questo Paese? È possibile uno sviluppo sul lungo termine senza investire in ricerca? Da dove nascerà l’innovazione con prodotti ad alto valore aggiunto se non si sfrutta la creatività degli italiani, l’unica vera risorsa visto che non si posseggono materie prime, né un costo del lavoro competitivo? In fondo almeno la ricerca biomedica costa molto poco. Con un miliardo di euro all’anno (qualche chilometro di autostrada) reperibili con l’aumento di 20 centesimi per pacchetto di sigarette o prodotto alcolico, si possono mantenere 5.000 ricercatori e 10.000 borsisti. E’ proprio impossibile? I ricercatori italiani sono stati sempre troppo “timidi”, mentre dovrebbero alzare la voce non solo per difendere il loro lavoro, ma soprattutto per sostenere i veri interessi di questo Paese.