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di Gianfranco Spadaccia
(Intervento al Convegno dell’ AIED e dell’Associazione Luca Coscioni sul tema dell’obiezione di coscienza e la legge 194. 22 maggio 2012).

Quando nei primi anni ’70 cominciammo la nostra lotta per la legalizzazione dell’aborto, le stime valutavano in molte centinaia di migliaia gli aborti clandestini cui le donne italiane erano costrette ogni anno a causa del reato previsto dal Codice Rocco. Oggi, a quaranta anni di distanza, in questo convegno promosso dall’AIED e dalla Associazione Luca Coscioni, ci riuniamo invece per interrogarci sulle iniziative da intraprendere contro i nuovi attacchi alla legge 194 e contro i ripetuti tentativi di paralizzarla e di renderla inoperante grazie all’obiezione di coscienza dei medici e alle inadempienze delle amministrazioni sanitarie.
Oggi come allora, in questa sala ci raggiunge l’eco dei nuovi atti di terrorismo e delle nuove stragi che come una maledizione sembrano sempre colpire questo disgraziato paese nei momenti di crisi istituzionale e politica. Oggi come allora siamo rafforzati dalla consapevolezza che, battendoci per il rispetto della legge e perché siano affermati, salvaguardati, difesi i diritti delle donne, ci battiamo anche per la democrazia, per la legalità, per la libertà e la responsabilità della persona.
Il problema ci rimbalzò dall’America, dal movimento e dalla contestazione femminista di quel paese. Ma non fummo contagiati dal motto presto fatto proprio anche dalle femministe italiane “il corpo è mio e lo gestisco io”. A muoverci furono le stime allarmanti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Se quelle stime erano attendibili, ci trovavamo di fronte a un problema sociale che bisognava interrompere e risolvere. L’esempio che ci era venuto non solo dalle Corti Americane ma da alcuni Stati europei come la Gran Bretagna e l’Olanda che avevano legalizzato l’aborto ci diceva che questo era possibile e se era possibile era doveroso tentarlo, era doveroso farlo diventare un obiettivo politico da imporre all’Agenda politica del Parlamento e del Paese.
Allora, come ci accade anche oggi ad esempio di fronte ai guasti prodotti dalla crisi della giustizia e alla tragedia del sovraffollamento carcerario, non inseguimmo proclamazioni ideologiche ma ci ponemmo il problema concreto di come combattere la piaga dell’aborto clandestino e di come sottrarre al dramma della criminalizzazione centinaia di migliaia di donne che erano costrette a ricorrervi con gravi rischi per la loro salute e la loro stessa vita. Fu Loris Fortuna, il deputato socialista che con noi aveva costituìto la LID e dato il suo nome alla legge sul divorzio approvata nel 1970 dal Parlamento e confermata dal referendum del 12 maggio 1974, a presentare il primo progetto di legge sulla depenalizzazione e la legalizzazione dell’aborto. Durante la campagna elettorale del referendum sul divorzio tentammo senza successo la raccolta di firme per altri referendum, uno dei quali riguardava la depenalizzazione del reato d’aborto.
Il salto di qualità avvenne tuttavia con il CISA, il Centro Informazione sterilizzazione e aborto di Adele Faccio. Adele aveva aperto e pubblicizzato consultori in alcune città del nord, aveva stipulato convenzioni con cliniche olandesi ed inglesi e organizzato viaggi che consentissero a prezzi ragionevoli alle donne che si rivolgevano ai consultori del CISA di raggiungere quelle cliniche per interrompere la loro gravidanza non voluta e non desiderata. Le donne che nei consultori non avevano sufficienti mezzi per affrontare il viaggio erano aiutate dalle altre che avevano maggiori disponibilità. Al CISA si rivolgevano infatti donne di diverse età, condizioni e classi sociali, nubili o madri di famiglia, desiderose di sottrarsi al ricatto dei cucchiai d’oro come alle pessime condizioni igieniche degli aborti realizzati con mezzi di fortuna. Nel novembre del 1974, al Congresso di Milano, lo stesso in cui adottammo il simbolo della Rosa nel Pugno che contraddistinse a lungo le liste elettorali radicali, il CISA si federò al Partito Radicale e insieme decidemmo che la questione andava ormai affrontata anche con le armi gandhiane della nonviolenza e della disubbidienza civile. Grazie a un ginecologo fiorentino, Giorgio Conciani, che ricordo con gratitudine ed affetto, le donne che si rivolgevano ai consultori del CISA poterono avvalersi, se le volevano ed erano disposte ad assumersene il rischio, oltre che delle convenzioni con le cliniche inglesi e olandesi, anche di un ambulatorio a Firenze sulla cui porta c’era l’intestazione del Partito Radicale e del CISA. 
Nel mese di gennaio del 1975 la polizia fece irruzione in quell’ambulatorio, arrestando le donne che erano in attesa dell’intervento oltre al dott. Conciani e ai suoi assistenti. Adele ed io ci rivolgemmo ai giudici (il procedimento era affidato al sostituto procuratore Carlo Casini, che diverrà in seguito leader del movimento per la vita), invitandoli con un dichiarazione affidata alla stampa a liberare le donne e ad arrestare noi due, responsabili politici e organizzativi dell’ambulatorio e delle sue attività nelle nostre rispettive qualità di segretario del Partito Radicale e di Presidente del CISA. Il giorno successivo alle cinque di mattina fui arrestato nella mia casa romana. Due settimane dopo si fece arrestare Adele Faccio al termine di una discorso pronunciato nel corso di una grande manifestazione pubblica al Teatro Adriano, sullo steso palco in cui si trovavano, insieme ad altri leader politici, Marco Pannella e Loris Fortuna. La direzione del CISA, che nei mesi successivi intensificò l’azione di disubbidienza civile in tutta Italia e non interruppe mai la propria attività con il sostegno del Partito radicale, fu assunta da Emma Bonino, che si fece poi arrestare nel giugno del 1975.
Il tentativo che fu messo in atto di ridurre questa vicenda a un affare di cucchiai d’oro o ad un episodio di aborto clandestino sfruttato dal Partito Radicale, di cui c’è ancora qualche traccia in qualche libro, non ebbe successo. I clandestini si nascondono. I consultori del CISA erano pubblici come pubbliche erano le deliberazioni e gli atti del Partito Radicale e pubblicamente dichiarate le nostre responsabilità. I clandestini, i disubbidienti incivili sfuggono alla legge che violano, non la provocano a fare fino in fondo il suo corso come invece pretende la disubbidienza civile dei nonviolenti che con la loro azione quella legge vogliono cancellare o cambiare.
Siamo stati bollati come abortisti, come fautori e diffusori dell’aborto. Con la sua legalizzazione che abbiamo perseguito insieme all’obiettivo di una corretta informazione sessuale e di una diffusa cultura contraccettiva, ci siamo proposti – e in gran parte ci siamo riusciti – di sconfiggere il fenomeno dell’aborto clandestino, Di più, ci siamo proposti di ottenere, come i dati statistici hanno poi documentato, il progressivo deperimento del ricorso all’aborto per gravidanze non desiderate nonostante in questo paese si debba ancora fare i conti con le condanne ecclesiastiche degli anticoncezionali e con una cultura maschilista che continua a rifiutare il preservativo.
Possiamo rivendicare con orgoglio di essere stato l’unico partito i cui dirigenti e militanti sono stato processati e arrestati non per tangenti, peculati, malversazioni, episodi di corruzione o concussione come è avvenuto negli ultimi decenni per quasi tutti gli altri partiti ma per le proprie convinzioni politiche che ci hanno portati a mettere in atto con metodo nonviolento azioni collettive di disubbidienza civile, di cui ci siamo sempre assunti la responsabilità.
Grazie anche al sostegno dell’Espresso di Zanetti, Scalfari e Caracciolo, già nei giorni del nostro arresto fu possibile lanciare la campagna per il referendum abrogativo dell’articolo del Codice Rocco che prevedeva il reato d’aborto, e raccogliere nei mesi successivi le cinquecento firme necessarie. Da subito si schierarono al nostro fianco i socialisti del PSI e gli altri partiti laici. Nei mesi successivi, esattamente come era già accaduto per il divorzio, caddero le ultime resistenze del PCI. Il referendum pendente fu tuttavia la causa delle elezioni anticipate del 1976. A causa di una discutibile giurisprudenza del consiglio di stato il referendum si sarebbe dovuto svolgere nel 1978, anno nel quale fu invece approvata dal Parlamento la legge 194. una legge statalista e non liberale approvata con il voto contrario dei nostri quattro parlamentari a causa dei forti limiti e delle gravi ambiguità che la caratterizzavano.
Nel 1980, il popolo italiano fu chiamato a votare su un referendum clericale che, come era già accaduto per la legge Fortuna, chiedeva l’abrogazione totale della legge 194 e su un referendum radicale che chiedeva invece l’abrogazione di alcune norme che consideravamo gravemente limitative e potenzialmente pericolose per la libertà di autodeterminazione della donna. Al centro delle nostre proposte c’era in particolare la cancellazione delle norme che limitavano agli ospedali pubblici le interruzioni di gravidanza. Ogni interruzione di gravidanza compiuto fuori delle mura degli ospedali pubblici diventa ipso facto un reato. Strana e davvero singolare figura di reato, che non si perfeziona con il compimento dell’atto ma a seconda della procedura seguita e del luogo dove viene eseguito per cui lo steso atto, lecito nell’ospedale pubblico, diventa automaticamente reato all’interno di una struttura privata.
Il referendum abrogativo voluto dalla Chiesa cattolica fu bocciato dal 70% dell’elettorato, la 194 fu dunque confermata con il 10% in più dei voti che avevano confermato la legge del divorzio. Il nostro referendum, nel quale siamo rimasti isolati, ottenne invece solo il 20% dei voti. La 194 fu dunque confermata con tutte le sue restrizioni, le sue contraddizioni, i suoi limiti.
Su di essi hanno fatto leva in oltre tre decenni i tentativi e le campagne che hanno avuto come obiettivo di svuotare dall’interno la legge 194. Essi sono stati bloccati fino ad oggi dalla memoria dello straordinario successo ottenuto dalla grande maggioranza popolare del 1980, che bocciò la richiesta clerico-fascista di abrogazione della 194. Ora tuttavia gli attacchi rischiano di riproporsi in forma più virulenta, come ha dimostrato il corteo che si è svolto a Roma con il patrocinio del sindaco Alemanno, dove si sono uditi i cori con le ripetute accuse di “assassine, assassine” rivolte alle donne costrette a ricorrere alla interruzione di gravidanza, le stesse donne che l’abolizione della 194 o il successo degli sforzi per svuotarla e renderla inoperante potrebbero riconsegnare al massacro dell’aborto clandestino.
L’Avvenire si è indignato per la definizione di manifestazione clericofascista con cui Radio Radicale ha commentato la cosiddetta manifestazione antiabortista. E’ comprensibile ma è davvero difficile liberarsi o mettere tra parentesi l’ingombrante presenza delle schiere di Forza Nuova e di Militia Christi. Così come è difficile ignorare quei cori di “assassine, assassine”. Per l’Avvenire le donne non sono assassine ma è una affermazione contraddittoria e ipocrita dal momento che l’aborto è considerato alla stregua di un omicidio.
In una mia recensione, scritta per Agenda Coscioni, del libro di Adriano Sofri “Contro Giuliano” (il suo amico Giuliano Ferrara), che recava come sottotitolo “Noi uomini, le donne e l’aborto”, citai e sottolineai una sua considerazione proprio su questo argomento, che voglio qui ricordare: “Dici: – scrive Adriano rivolto a Ferrara – l’aborto è un omicidio ma le donne non sono assassine. Dici: l’aborto è maschio, l’indifferenza è maschia, il cinismo è maschio. (E tu sei maschio e io sono maschio). E’ vero se vuoi dire la nostra viltà e la nostra responsabilità…Ma non è vero, ed è una bestemmia, se distoglie dal fatto così esclusivamente e ferocemente femminile dell’aborto.’ Assassini siamo noi, tu, loro, la società’…E’ vero ma senza spingersi a un nuovo furto d’anima. Le donne vengono così paradossalmente espropriate della autorizzazione a risultare titolari dell’omicidio da loro stesse commesso. Come le donne che partoriscono erano – sono ancora, per tanti – meri contenitori della vita da deporre nel mondo dei padri così le donne che abortiscono sono mero tramite di un omicidio perfetto tramato e compiuto da altri: la ‘cultura di morte’ e io e tu e tutti. L’impiego della formula incolpatrice e il rifiuto di tramutarla in un’imputazione diretta alle donne, lungi dall’ottenere l’effetto acrobatico di indulgenza e comprensione cui mira, ottiene l’effetto opposto. Le donne commettono un omicidio senza essere nemmeno assassine. Povere donne.” 
Meglio non si potrebbe dire. Adriano coglie l’essenziale dell’ideologia non antifemminista ma antifemminile, rivolta contro le donne, contro la loro sovranità (che definisce “territoriale”) sul proprio corpo, contro la loro autonomia. A ben guardare, lo scrivo senza nessuna intenzione di fare indebite confusioni, è la stessa ideologia, è lo stesso sentimento di superiorità proprietaria che è alla base delle violenze maschili contro le donne e dei tanti omicidi e delitti passionali che hanno contrassegnato e continuano a contrassegnare la cronaca nera delle nostre città.
Anche per questo non dobbiamo rassegnarci, dobbiamo attrezzarci a battere il tentativo di strangolare, con lo strumento subdolo, del tutto gratuito e opportunisticamente gratificante dell’obiezione di coscienza, la legge 194 e i diritti delle donne. C’è una ripresa di potere clericale in questo paese ma è una ripresa che si misura non in termini di diffusione di una nuova religiosità ma solo in termini di potere politico, come dimostrano la crisi delle vocazioni, la costante diminuzione dei fedeli, i sondaggi sulle questioni più scottanti e controverse, i dati statistici che registrano i mutamenti che si verificano nella famiglia italiana (matrimoni civili, coppie di fatto, figli nati fuori dal matrimonio). C’è una fragilità del centro-destra che lo sospinge a qualsiasi cedimento di fronte alle pretese clericali. C’è l’opportunismo e nel migliore dei casi la tendenza al compromesso del centro-sinistra. C’è l’indifferenza delle forze che si atteggiano a potenziali alternativa di questo regime. 
Contro tutto questo abbiamo un solo grande elemento di forza. Sappiamo che il Paese, con la sua cultura diffusa, è infinitamente migliore delle sue classi dirigenti, politiche e religiose.