Elogio della libera morte

Il Foglio
Guido Vitiello

Jean Améry, un altro Primo Levi, sul suicidio come diritto. Anzi, l’oscuro fondamento di ogni altro diritto.

Per Levi era un atto “dalla cintola in su”, un atto pienamente umano che le bestie, e gli uomini ridotti a bestie, non compiono. Da una rivista americana (1931): “Usate proiettili nuovi. Quelli vecchi sono carichi di germi che potrebbero infettare la ferita”. Venne impiccato un uomo che, dopo essersi tagliato la gola, era stato salvato. “La risposta alle tormentose intimazioni del trascorrere del tempo. Il no squillante allo squillante scacco dell’esistenza”.

Ogni suicidio, scrisse Balzac, è un poema solenne di malinconia: “Dove troverete, nell’oceano della letteratura, un libro che emerga e possa competere in genialità con questo trafiletto: “Ieri alle quattro una giovane donna si è buttata nella Senna dall’alto del Ponte delle Arti”. Già, dove? Le sfide sono fatte per essere raccolte, ancorché con qualche secolo di ritardo. “La pelle di zigrino” fu pubblicato nell’agosto del 1831. Esattamente un secolo e un mese più tardi, nel settembre del 1931, il mensile Modern Mechanix, una delle tante riviste americane d’informazione tecnica e consigli per il fai-da-te, ospitò un sublime trafiletto dal titolo “Precaution for Would-be Suicides”: “Se state meditando di commettere suicidio, assicuratevi di prendere questa precauzione: usate proiettili nuovi. I proiettili vecchi sono senz’altro carichi di germi che potrebbero infettare la ferita e causarvi la morte. Se usate proiettili nuovi, potreste riprendervi dal tentato suicidio”. Altro che poema solenne di malinconia, caro Balzac, questo è un romanzo distillato in cinquanta parole. E che romanzo! Un romanzo esilarante, tragico, surreale, grottesco. Il suo apparente paradosso — che colui che vuol togliersi la vita debba aver cura di non contrarre infezioni mortali — presuppone in effetti una scissione, una fenditura che percorre tutto l’essere dell’aspirante suicida, tra la logica della vita e la logica della morte, tra un corpo che per quanto si tenti di domarlo è riottoso fino all’ultimo e non vuol saperne di morire, e una coscienza che ha deliberato contro il miglior consiglio delle viscere, contro l’inesausto e fedele affaccendarsi degli organi. Che si possa marciare uniti, anima e corpo, al traguardo supremo dell’estinzione, è un’ipotesi che i redattori di una rivista di fai-da-te, che immaginiamo pragmatici, ben posati, restii alle intemperanze liriche, non vogliono prendere neppure in esame. Per lo sfrigolio e le scintille prodotte da questo cortocircuito logico-esistenziale non c’è rimedio tecnico: la raccomandazione contraddittoria si limita a render conto delle due direzioni nelle quali è strattonato chi si colloca sulla soglia tra la vita e la morte. E’ una soglia che si può varcare letteralmente d’un balzo — dal quarto piano, da un picco roccioso. Ma accade spesso che le soglie — tutte le soglie — chiamino le nature più riflessive a trattenercisi alquanto, a indugiare laddove altri transitano distratti. E così certi antichi asceti, maestri tantrici o gnostici libertini, prolungavano indefinitamente l’istante che sta tra l’eccitazione e l’emissione del seme; così il poeta Gérard de Nerval, come un secolo dopo i surrealisti, amava trattenersi nel chiarore divinatorio del dormiveglia, il demi-sommeil, senza concedersi né ai reclami del giorno né alle lusinghe della notte. A dire il vero, del melanconico Nerval si ricorda più spesso l’andirivieni tra la vita e la morte: il suicidio era il suo assillo, a Posillipo per due volte fu per gettarsi dal promontorio (“Non avevo che da fare un passo: nel punto in cui mi trovavo l’altura faceva uno strapiombo, in basso rumoreggiava azzurro e puro il mare”), ma in quell’occasione attraversò vittorioso l’Acheronte. In preda alle sue crisi di follia, continuò a osservare la vita dal punto di vista della morte, dall’altro regno in cui aveva già messo un piede. All’alba del 26 gennaio del 1855 lo trovarono impiccato a un’inferriata della rue de la Vieille-Lanterne, a Parigi. Anche Jean Améry, ebreo austriaco deportato ad Auschwitz, si trattenne più volte sulla soglia tra la vita e la morte. Nel febbraio del 1974 tentò il suicidio, nell’ottobre del 1978 portò a compimento l’opera in una camera d’albergo a Salisburgo. Il suo discorso sulla libera morte, “Levar la mano su di sé”, cade nel centro esatto di questo interregno tra il suicidio mancato e il suicidio riuscito: apparve in Germania nel 1976, e lo ristampa oggi Bollati Boringhieri dopo vent’anni di assenza dagli scaffali. Améry non parla di suicidio (Selbstmord) ma di libera morte (Freitod), e lo fa con l’autorità caparbia e intrattabile di quanti si sono trovati, come lui dice, “prima del salto”: “Qualcuno a questo punto osa sorridere ironicamente o avanzare una dotta considerazione? Gli tolgo immediatamente la parola, per quanto brillante possa essere il suo curriculum in fatto di pubblicazioni sul suicidio. Solo chi è entrato nell’oscurità può dire la sua. Non farà emergere nulla che fuori, alla luce, possa apparire utile. Quanto avrà estratto dalle profondità, alla luce del giorno gli sfuggirà tra le dita come finissima sabbia. Che lui, e solo lui, tuttavia fosse sulla via giusta, ossia sulla via adeguata all’avvenimento, gli sarà confermato da ogni aspirante suicida che rimanga presente a sé stesso, che non si rinneghi”. Rinnegarsi equivale qui a sottomettersi di nuovo alla logica della vita, ma per chi si trova prima del salto è una logica remota e incomprensibile, un pio farfugliamento: “Fin dove sono malato se nel mezzo della vita cerco l’abbraccio della morte e tento di collocare l’assurda logica della morte pateticamente accanto a una non meno assurda logica della vita?”. Solo chi è entrato nell’oscurità può dire la sua: è una frase che abbiamo sentito pronunciare mille volte da chi ha attraversato i campi di concentramento nazisti e, scampatone vivo, non ha riconosciuto neppure l’ombra della propria esperienza nelle parole degli specialisti (“Qualunque sopravvissuto ha più da dire intorno a quel che è accaduto di tutti gli storici messi insieme”, diceva Elie Wiesel). Hans Mayer fu arrestato dai nazisti nel 1943 in Belgio, dove si era unito alla resistenza. Fu torturato e poi internato ad Auschwitz per due anni. Come altri (il più noto è Paul Celan), dopo la liberazione volle scrollarsi di dosso la lingua dei torturatori: volse il suo nome proprio nel francese Jean, anagrammò il cognome in Améry. “Levar la mano su di sé” è inseparabile dall’altra sua opera maggiore, apparsa dieci anni prima, “Intellettuale ad Auschwitz”. Perfino le metafore si inseguono tra un libro e l’altro: “Una leggera pressione della mano avvezza all’uso dello strumento di tortura è sufficiente per trasformare l’altro, compresa la sua testa, nella quale magari sono conservati Kant e Hegel e tutte le Nove sinfonie e Il mondo come volontà e rappresentazione’, in un maialetto che urla terrorizzato mentre viene portato al macello” (“Intellettuale ad Auschwitz”); “Di fronte al suicidio siamo sempre il maialino urlante che viene trascinato al macello” (“Levar la mano su di sé”). Ma al di là di questi echeggiamenti, di questi accordi captati in una musica discorde, Auschwitz e il suicidio si tengono assieme nella mente di Améry su un piano molto più profondo: il grande rifiuto opposto al Lager e il grande rifiuto opposto alla vita sono una cosa sola. In “Intellettuale ad Auschwitz” la parola chiave era risentimento, “una condizione non solo contro natura ma anche contraddittoria a livello logico. Inchioda ciascuno di noi alla croce del nostro passato distrutto. Assurdamente esige che l’irreversibile sia rovesciato, che l’accaduto sia annullato”. Non si tratta di una rimozione o di un disconoscimento del passato, ma del fiero e disperato adergersi della coscienza morale al di sopra del corso della storia, nella pretesa che sia quest’ultima a recedere vergognosamente o a capitolare: è lo spirito di vendetta contro il tempo di cui parlava Nietzsche. In “Levar la mano su di sé” questo sentimento trova un’altra formulazione: è l’échec, lo scacco a cui non vuole soggiacere l’aspirante suicida. “Per lui, che con maggiore o minore intensità ha sempre avvertito la nausea, l’échec nella vita e l’échec della vita divengono un’autentica atrocità, che egli intende respingere: nell’orgoglio e nel lutto. Egli si schiera a fianco di coloro, e sono una piccola minoranza, che non ci stanno più, e che il primo babbeo definisce vigliacchi, come se vi fosse coraggio più nobile di quello che si oppone a quell’angoscia della morte che è all’origine di ogni angoscia”. La libera morte è dunque “la risposta alle tormentose intimazioni dell’esistenza e in particolare del trascorrere del tempo, nella cui corrente noi nuotiamo, assistendo al nostro stesso annegare (…). E’ il no squillante allo squillante, annientante échec dell’esistenza”. Tra le carte dello scrittore suicida B., protagonista di “Liquidazione” dell’ungherese Imre Kertész — anch’egli sopravvissuto ad Auschwitz e a Buchenwald — è ritrovato l’abbozzo di un’opera teatrale: “Morire è facile / la vita è un immenso campo di concentramento / che Dio ha messo su per gli uomini sulla terra (…) Suicidarsi corrisponde / a fregare quelli che stanno di guardia”. C’è più di un’eco di Améry, in queste parole. Molto si è scritto sui suicidi degli ex deportati, da Primo Levi a Bruno Bettelheim a Tadeusz Borowski, e non sempre con la cautela che si dovrebbe usare a cospetto di atti le cui motivazioni rimarranno sempre, almeno in parte, private e inconoscibili. Li si è considerati, spesso, come ripercussioni differite di una conflagrazione originaria che non ha ancora cessato di propagare le sue radiazioni mortifere, come crimini postumi del nazismo. Senz’altro c’è del vero. Ma va pur detto che Levi considerava il suicidio un atto “dalla cintola in su”, come disse in un’intervista, un atto pienamente umano che le bestie non compiono, e neppure l’uomo ridotto a bestia: per questo erano rari i suicidi nei campi. Il discorso sulla libera morte di Jean Améry è una rivendicazione del suicidio come gesto che non s’immette nella scia di morte dei Lager, ma che anzi si oppone alla corrente: “Chi deve morire si trova nella condizione di dovere fornire una risposta a un destino, e la sua replica potrà essere la paura o il valore. Il suicida o l’aspirante suicida prende invece la parola”. E’ per questa insolenza, forse, che chi leva la mano su di sé è il grande scomunicato di quasi tutte le società. Améry sembra intravedere alle spalle del suicida l’ombra minacciosa del Grande Animale sociale, il bestione trionfante, e dietro a quest’ombra un’altra più imponente ancora, la vita stessa come dispensatrice di scacchi e umiliazioni, come gioco giocato secondo regole inaccettabili, se non come deportazione in terra. Due ombre che si compenetrano nell’immagine di Auschwitz. “Dietro ogni fatto collettivo’, dietro ogni fatto sociale magniloquente, io intravedo, il mio organismo intravede… un’anticamera della camera a gas”, scriveva l’ucraino Piotr Raroicz, un altro ex deportato morto anch’egli suicida nel 1982, in un taccuino sul maggio francese. Davanti alle pretese del Leviatano, la libera morte di Améry è l’ultimo rifugio del principio d’individuazione, l’estremo sussulto di autonomia, il guanto di sfida lanciato in una sfida assurda. E c’è qualcosa di sospetto, di morboso, un insopprimibile sentore di malafede nella società che si stringe caritatevole intorno a quel suicida che, fino a un istante prima del suo gesto, aveva guardato con la più schietta indifferenza. Nel “Dio selvaggio”, grande e dimenticato saggio sul suicidio come forma d’arte, Al Alvarez (che tentò anch’egli di uccidersi) riportava un caso di cronaca londinese che risale alla metà dell’Ottocento, e che potrebbe rivaleggiare con il nostro trafiletto americano nella sfida lanciata da Balzac: “Venne impiccato un uomo che, dopo essersi tagliato la gola, era stato salvato. Lo impiccarono per essersi voluto suicidare. Il dottore aveva asserito che era impossibile impiccarlo perché la gola si sarebbe riaperta ed egli avrebbe potuto respirare attraverso la ferita. Questo parere non venne ascoltato e impiccarono il loro uomo. La ferita alla gola si riapri immediatamente e l’uomo tornò in vita per quanto fosse impiccato. Ci volle del tempo per convocare gli assessori perché decidessero sul da farsi. Infine gli assessori si riunirono e legarono il collo al di sotto della ferita finché non fu morto”. Améry non fu certo impiccato per aver tentato di uccidersi, nel 1974, ma nell’assembramento soccorrevole che si crea intorno al capezzale del suicida vide una forma più raffinata di tortura: “Ero legato, attraversato da tubicini, con dolorose apparecchiature, impostemi per nutrirmi artificialmente, a entrambi i polsi. Affidato, lasciato in balia di alcune infermiere che andavano e venivano, che mi rifacevano il letto, mi mettevano in bocca il termometro, e tutto ciò in maniera impersonale, come se fossi già una cosa, une chose. La terra ancora non mi aveva: il mondo era invece tornato ad avermi con sé (…). Avvertivo una profonda amarezza nei confronti di tutti i benintenzionati che mi procuravano quell’umiliazione”. L’umiliazione, cioè, di vedersi imposto il dovere di vivere: “Si deve pur vivere’, dice la gente nella sua saggezza comune. Non si deve, e tanto meno lo si deve in quanto tutto si muove in direzione del fatto che un giorno che certamente verrà, non dovremo più vivere, ma anzi potremo non vivere. C’è una mietitrice, si chiama morte. Chiunque può allora prendere la falce e vibrare un colpo”. Se un dovere di vivere esiste, è un dovere che si può scrutare e considerare solo dal punto di vista dei vivi e nella logica dei vivi; e in questo, nulla supera la sublime cortesia di Albert Caraco, che si uccise solo il giorno dopo la morte del padre. Ci sono almeno due modi di leggere le parole di Améry e la sua teoria del suicidio filosofico che pare scritta da uno stoico infuriato, se ci si passa l’ossimoro. Le si può considerare come il frutto di una condizione estrema, irriducibile all’esperienza ordinaria, quella dell’ex deportato che vede nelle cure dei medici una nuova intrusione dello stato nella sua sfera più inviolabile, una sottrazione dell”‘habeas corpus” a un corpo che ha deciso per suo conto di sopprimersi. O al contrario le si può leggere come la gigantografia di un dilemma comune, che s’intreccia con le questioni che il gergo della bioetica chiama “fine vita” (goffa espressione che ricorda il fine corsa dei tranvieri). In questa luce, la libera morte diventa non già un diritto, ma l’o- scuro fondamento di ogni altro diritto, la libertà anteriore a tutte le altre, la libertà cioè di disporre sovranamente della propria vita. Forse non c’è discussione sull’eutanasia o l’accanimento terapeutico che non debba partire da qui, dalla meditazione sul suicidio e la comunità dei vivi. E di certo vale la pena rileggere un’altissima pagina di Guido Calogero, apparsa sul Mondo nel 1962 e poi raccolta nel “Quaderno laico”. S’intitolava “Eutanasia e suicidio”, e Calogero sosteneva che non si può sciogliere il problema giuridico e morale dell’una senza aver prima illuminato i dilemmi dell’altro. Lo stile e il tono non potrebbero essere più distanti dalla risentita fierezza di Améry, le premesse filosofiche ed esistenziali non potrebbero discostarsi di più, ma l’orientamento del discorso è comune. Adempiuti gli obblighi terreni, annota Calogero, “l’individuo ha il diritto di decidere che preferisce dimettersi dalla vita; e nessuna autorità, né umana né divina, in età non più feudali, può continuare a pretendere che egli sia solo un suddito al suo servizio, così come nessuna comunità civile può vietare a un suo cittadino di decidere, a un certo punto, di dimettersi da suo membro. E allora si vede come il problema, in tali casi, sia non già quello di uccidere per pietà, ma solo quello di non pia ostacolare il suicidio. Certo, anche questa decisione è grave. (…) Ma allora, nel quadro di questa dignità suprema, rientrerà bene anche il gesto di chi, dopo aver detto le sue ultime parole a chi gli sta intorno, volgerà la mano a prendere la dose mortale di sonnifero, che non gli sarà stata più nascosta o tenuta lontana, come se egli fosse diventato un infante irresponsabile proprio nei momenti più conclusivi e solenni della sua vita”.