Dalle «serre» spaziali nuova luce sulle staminali – Lo strano caso delle staminali in orbita

Sole 24 Ore Nòva

Colonizzare nuove terre è intrinseco nell’uomo. Anche quando si tratta di altri mondi. Sono infatti numerosi i progetti di ricerca che si concentrano su come rendere abitabili altri pianeti. A partire dalla possibilità di far crescere piante in serre spaziali in grado di fornire calorie agli astronauti, riciclare nutrienti, fornire acqua potabile e ossigeno, ma anche un supporto psicologico. I progetti dell’Esa e della Nasa che studiano come produrre cibo in assenza di gravità e quali siano le piante in grado di vivere in condizioni anomale sono già in fase avanzata. Con importanti prospettive anche per il Pianeta terra. Gli esperimenti, infatti, potrebbero contribuire allo sviluppo di nuove forme di agricoltura nelle zone aride della Terra o aiutare a sviluppare più velocemente alberi che crescono in aree forestali andate perdute. Ma l”‘esplorazione” della biologia in assenza di gravità è fondamentale anche per ottenere preziose informazioni sulla fisiologia e il metabolismo di tutte le cellule, che siano di origine vegetale, animale o umana. «In un ambiente dove la gravità è nulla come nelle stazioni orbitanti, o molto bassa come sulla luna o Marte, le piante non crescono come sulla Terra e hanno una fisiologia e un metabolismo diverso — spiega Sergio Mugnai, che segue la ricerca che le università europee propongono a Esa, nella sede olandese di Noordwijk —. Sappiamo che nelle radici esistono dei sensori che percepiscono la gravità, da qui, partono dei segnali di tipo fisiologico e metabolico che possono modificarne sviluppo e crescita». E proprio questi segnali saranno oggetto di studio di un progetto, chiamato Gravi2, che verrà portato avanti dall’astronauta italiano Luca Parmitano, che partirà a settembre 2013 e resterà in orbita fino a marzo 2014. L’esperimento è il seguito di Gravi1, che aveva l’obiettivo di stabilire il limite minimo di stimolo gravitazionale, la tappa successiva è studiare la risposta genetica e metabolica delle piante nello spazio. Un altro esperimento italiano sulle piante è svolto all’Università di Firenze da Stefano Mancuso, con cui Mugnai ho collaborato per dieci anni prima di trasferirsi in Olanda, e riguarda un test fatto a bordo del penultimo viaggio dello Space Shuttle sulla specie botanica arabidopsis, considerata un modello per le piante, perché ha un ciclo di vita molto veloce e un Dna, già sequenziato, che è ridotto rispetto alle altre specie vegetali. I semi di arabidopsis che sono germinati nello spazio e sono tornati sulla terra sono ora sotto screening genetico e i risultati saranno pubblicati tra poco. Quelli preliminari indicano che alcuni geni vengono soppressi, o ridotti di intensità, perché in assenza di gravità non servono. E la stessa cosa sembra accadere nell’uomo. «Sto studiando gli effetti sui tessuti ossei, sull’endotelio dei vasi sanguigni e sulle cellule staminali — riprende Mugnai, che oggi a Bergamoscienza partecipa alla tavola rotonda dal titolo “Vivere nello spazio: desiderio e realtà” —. Il dato più interessante è che in assenza di gravità, che è fonte di stress per le cellule, le staminali reagiscono e si differenziano in maniera diversa rispetto alla Terra». È già noto che gli astronauti quando rientrano dalle missioni spaziali hanno un grado di osteoporosi molto avanzata (un mese nello spazio equivale a due anni sulla Terra), proprio perché la formazione di nuovo osso non viene stimolata se non serve contrastare la forza di gravità. «La ricerca — dice — ha lo scopo di portare nello spazio le staminali per capire se e come possono differenziarsi in cellule ossee. Al momento infatti si è visto che le sta-minali totipotenti che dovrebbero trasformarsi in cellule ossee, in maniera autonoma si sviluppano invece in cellule neuronali». Le cellule, insomma, diventano, a seconda dell’ambiente, quello che è necessario. E uno scheletro robusto in assenza di gravità non è di grande utilità. Però, l’aspetto più curioso è il fatto che le staminali si candidano a diventare cellule cerebrali. Si potrebbe azzardare a dire che per vivere nello spazio occorre “cervello”. «Per comprendere meglio questo comportamento, si metteranno le staminali a contatto con la vitamine D, fondamentale per lo sviluppo osseo, e a quel punto si vedrà se realmente si svilupperanno in cellule ossee o diventeranno, in maniera indipendente, un altro tipo di tessuto. Di fatto, le stamina-li, così come le meristematiche delle radici delle piante, nello spazio hanno un comportamento diverso rispetto alla Terra. Ora il nostro compito è capire come possiamo “guidarne” lo sviluppo in determinate cellule, attraverso l’uso di composti chimici o farmaci specifici» Gran parte di questi studi “spaziali” hanno ricadute non solo per la medicina, la biologia e la botanica, ma anche sul fronte tecnologico. Un esempio sono i led, la nuova frontiera dell’illuminazione anche sulla Terra, perché non scaldano, consumano pochissimo e hanno una lunghezza d’onda unica, per cui si può scegliere quella che serve per far crescere le piante nel modo migliore. «Altra possibile applicazione terrestre arriva dall’uso di particolari substrati, sterili, molto assorbenti ma capaci di rilasciare acqua lentamente, e che possono essere impiegati sulla terra, nelle zone aride, fino alle coltivazioni in acqua, cioè l’idroponica, con la prospettiva di impiegarla nello spazio, sfruttando tecnologie avanzate» conclude Mugnai. Un desiderio che può trasformarsi in realtà.