Storia della sosprendente svolta antiproibizionista dell’America Latina

Il Foglio
Maurizio Stefanini

I metodi militari sono costosi e inefficaci così arrivano i progetti di "droga di stato"

Il primo a parlare della svolta antiproibizionista dell’America latina era stato Robert Gil Kerlikowske, "lo zar della droga", l’uomo che guida l’Autorità della Casa Bianca per il controllo della droga (Ondcp). Adesso è il New York Times a rilevare che qualcosa sta cambiando anche a sud, in America latina, dove sta maturando la consapevolezza che la guerra alla droga condotta con metodi militari è sempre più impegnativa e difficile da sostenere, e spesso inefficace come dimostra il caso messicano che tanto spaventa gli Stati Uniti.

Proprio per questo, i governi del continente si starebbero orientando verso l’antiproibizionismo. Gil Kerlikowske parlò dopo che al vertice delle Americhe di Cartagena dell’aprile scorso (quello che è passato alla storia più per le spie della Cia beccate con le escort che per tutto il resto) il presidente del Guatemala, Otto Pérez Molina, aveva dichiarato di essere favorevole all’antiproibizionismo, appoggiato dai padroni di casa della Colombia nella persona del presidente Juan Manuel Santos.

Pur dicendo di comprendere il problema, Barack Obama rispose che "la legalizzazione non è la risposta al problema". Escort a parte, quello fu un vertice importante. Assieme alla questione cubana e alla crisi delle Falkland, la droga fu uno dei tre temi di dissenso che impedirono una conclusione dell’incontro con la classica dichiarazione comune. Kerlikowske chiedeva di aprire la strada a una "terza via" oltre all’alternativa secca tra proibizionismo e antiproibizionismo: "Nell’applicare le politiche di controllo delle droghe dobbiamo basarci sulla ricerca, non sull’ideologia", spiegò. Secondo lui, l’approccio poliziesco non va abbandonato, bensì arricchito con una maggiore enfasi sulla prevenzione e sul trattamento, dal momento che la ricetta "informazione-prevenzione-repressione" ha contribuito alla riduzione di un terzo del consumo di stupefacenti negli Stati Uniti.

Ma in America latina le cifre delle violenze collegate al narcotraffico sono diventate impressionanti: tra i 55 mila e i 71 mila morti in sei anni di guerra della droga in Messico; il Brasile al primo posto mondiale come numero globale di omicidi. Proprio su questa spinta è arrivato quel progetto di "marijuana di stato" del governo uruguaiano che ha portato il New York Times a titolare: "Il sud America considera la legalizzazione della droga", con il corrispondente Damien Cave che chiede: "Quarantuno anni dopo che il presidente Richard M. Nixon dichiarò la guerra alle droghe, è il momento di cambiare?".

Si chiama unanuevalegislacion.com il sito che è stato aperto dal governo di Montevideo per difendere l’idea che è di un’Amministrazione di sinistra, ma con consensi e contestazioni ampiamente trasversali. Tra i primi, il video di presentazione esibisce il deputato dell’opposizione Luis Lacalle Pou, del Partido nacional blanco, e a elogiare l’idea "valorosa" c’è anche il Nobel per la Letteratura e noto liberale Mario Vargas Llosa, abituale critico dei governi di sinistra latinoamericani. Sono di destra anche Pérez Molina e Santos, ma quest’ultimo ha chiesto di non prendere decisioni unilaterali: linea identica a quella di Tarek El Aissami, ministro dell’Interno del Venezuela, e dell’Onu, che la considera incompatibile con gli accordi internazionali contro il narcotraffico.

L’Uruguay inizierà a piantare la canapa indiana "di stato" a settembre, e il raccolto sarà disponibile dopo sei mesi. Il presidente José "Pepe" Mujica ha annunciato l’istituzione di un monopolio di stato sulla marijuana all’interno di un piano di 15 misure per ridurre l’aumento della criminalità, anche se l’Uruguay resta uno dei paesi più sicuri del continente. Un monopolio, per la verità, sulla sola produzione: la distribuzione sarà poi affidata a privati, sia pure sottoposti a controllo. Sarà pure istituito un registro dei consumatori che prevede la distribuzione di un massimo di 30 grammi al mese per persona: un modo per evitare sia il mercato nero che quel tipo di narcoturismo che ha obbligato infine l’Olanda a cambiare la propria legge sui coffee shop.

Poiché in Uruguay i consumatori di marijuana almeno una volta al mese sarebbero 75 mila, il governo ha previsto una produzione da 27 mila chili l’anno, che sarà realizzata in un apposito appezzamento di un centinaio di ettari. Il governo uruguayano dice di non volerci guadagnare sopra: gli utili e le imposte sulla vendita saranno destinati alla riabilitazione dei tossicodipendenti, mentre una parte della produzione potrà servire per la realizzazione di farmaci contro il cancro. E’ stato annunciato anche che questa scelta sarà posta "alla base della politica estera", e in effetti il giornalista del New York Times Cave ha contato che sono almeno nove i paesi latinoamericani in cui stanno montando posizioni di tipo antiproibizionista, comprese le proposte di legge ai Congressi di Brasile e Argentina.

Come Pérez Molina e Santos, anche l’ex presidente messicano Felipe Calderón (di destra) aveva parlato in favore di un antiproibizionismo di principio, mentre a sinistra il boliviano Evo Morales da tempo fa battaglia per chiedere all’Onu di togliere la foglia di coca dalla lista delle sostanze bandite a livello internazionale. E ancora diversa è stata la strategia del presidente salvadoregno Mauricio Funes: un giornalista eletto con i voti degli ex guerriglieri che poi ha fatto spesso sponda con gli Stati Uniti, anche per bloccare le proposte di Pérez Molina. Lui per ridurre gli alti tassi di violenza è ricorso alla mediazione della chiesa per trattare direttamente con le maras, le bande di giovani che si stavano collegando sempre di più ai narcos messicani. E dice che in questo modo da marzo è riuscito a ridurre drasticamente il tasso di omicidi del 52 per cento: da 14 morti al giorno ad appena 4.